Ridge Racer ha smesso da tempo di essere un playboy, ha appeso le sue due mosse al chiodo e si macera nel ricordo di quel che è stato. Quel che è stato è molto: un’esistenza passata ad accompagnarsi a prede belle ma soprattutto giovani e inesperte. Una carriera a infilarsi al ballo delle debuttanti, con il suo costume da perfetto zarro anni Novanta, solo in qualche occasione stemperato e impreziosito da una serie di accorgimenti e di prese di posizione più eleganti.
Dal dicembre del 1994 a quello del 2006, Ridge Racer è stato al fianco di PlayStation, PlayStation 2, Nintendo DS, PSP, Xbox 360 e PlayStation 3, quando era il momento di stringere il corsetto e di gettarsi in pasto agli sguardi famelici dei curiosi. Solo una volta ha avuto i gradi per presentarsi in veste di accompagnatore ufficiale, quando l’accoppiata perfetta con la prima console di Sony li vedeva entrambi giovani, potenti e decisi a sgranocchiare la concorrenza. Poi ha avuto la lucidità di rimanere lì attorno, appoggiato a una colonna, pronto per un ballo e qualche colpo d’anca oltre il consentito.
Nemmeno due righe in cronaca, parafrasando malamente qualcuno. Dico, di tutte le boiatissime che i vari Spinner, Pitchfork, NME e amici dedicano a Mr. Thom York e compagnucci vari, nessuno che abbia provato a leggere tra le righe del rinnovamento del sito ufficiale (sempre che non mi sia perso io la notizia). Quel che c’è di certo è che da qualche giorno è scomparsa la grafica a tema “In Rainbows” ed è arrivato qualcosa di tutto nuovo: ora con più carta bianca e scritte a quasi-macchina-da-scrivere lontanamente “OK Computer”. Ecco, dato che poi si strilla ai quattro venti che il nuovo disco è pronto perché J. Greenwood ha ordinato una pizza quattro stagioni “e lui la pizza la ordina solo quando il disco è pronto”, insomma, forse si poteva anche scovare una speranza nella nuova grafica del sito. Che comunque rimane “vecchio”, nel senso che è pur sempre stracolmo di tutte quelle psicopatologie in html in cui potete imbattervi girandolo un po’. No, davvero, potreste finire in zone semplicemente preoccupanti, oppure nella message board, che ho scoperto poco fa e che è una roba che doveva già sembrare vecchia nel 1998. Io, per intanto, voglio credere nell’imminente album e nell’annuncio stile “oh, è pronto, tra una settimana potrete scaricarlo”. Magari non a 128 kbps ecco. Compratevi qualche server extra dai, cialtroni arricchiti!
Una canzone al giorno leva il medico di torno. Se è quella sbagliata, nel posto sbagliato, all’orario sbagliato, ti leva di torno pure il contratto a tempo determinato o d’affitto. Un bel chissenefrega è comunque sempre auspicabile. Clicca qui per scoprire le altre canzoni del giorno.
Che ci volete fare? Alcune scelte sono obbligate, e per quanto “Just” non sia (più) la mia canzone dei Radiohead preferita, di sicuro è quella a cui devo la passione per i tizi di Oxford, a cui lego un tot di ricordi e storielle e che quindi è degna nuova figurante nell’elenco delle canzoni del giorno. Oltretutto, ai tempi in cui i video musicali ancora esistevano, “Just” era tra le canzoni più interessanti da vedere. Oltre che da ascoltare, e vabbé. In quest’ultimo caso semplicemente perché è l’ennesima dimostrazione dell’affiatamente “da band” del gruppo. Un suono preciso e caratteristico, al tempo stesso corale e ricco di amore individuale (dalla bella linea di basso, alle chitarre ululanti). Con gli anni la produzione inizia a risentirne un minimo, oggi come oggi probabilmente il suono sarebbe meno “freddo” e sia Selway (batteria) che Greenwood (chitarra) gigionerebbero di più, anche attorno al blues, come in “15 Step” (“In Rainbows“). Ma va benissimo così.
“Just”, dicevo, è la canzone con cui mi sono messo assieme ai Radiohead. C’era già “Creep” ok, ma “Pablo Honey” non era arrivato a casa. C’era “High & Dry”, sicuro, e difatti “The Bends” aveva ricevuto la benedizione della collezione di CD di mio fratello per quella… ma non era ancora amore vero per il sottoscritto. Fino a che, in un pomeriggio di primo sole primaverile, in un sabato piuttosto placido, mi sono regalato per il compleanno il mio primo modem (un Trust 28.8 pagato uno sproposito). Ero sul tram con un walkman e la cassetta di “The Bends”, e di fronte a Piazza Duca D’Aosta ho capito che volevo sposarli. Con “Just”. Dire che, solo qualche tempo prima (ancora lievemente scosso dal tizio che si era sparato), avevo accusato questi inglesotti di aver palesemente ladrato il riff iniziale a “Smells Like Teen Spirit”. Ah, gli errori di gioventù.
I veri giornalisti si inventano le virgolette anche dove non ci sono. In effetti Ed O’Brien, quello dei Radiohead di cui nessuno si ricorda mai, non ha esattamente schiaffeggiato Thom Yorke con una trota grande e grossa. Ma quasi. L’asimmetrico Thom aveva detto che il gruppo si era lievemente sfrangiato gli zebedei di registrare dischi veri e propri? Che lunghi periodi in studio non sarebbero stati sopportabili? Allora qualcosa dev’essere cambiato, perché l’altro chitarrista (l’Ed di cui sopra), ha fatto sapere al New Musical Express (NME, per gli amici/nemici) che… sorpresa sorpresa, il prossimo inverno ci son già degli studi prenotati per dare il via ai lavori sul nuovo album.
In mancanza di un nome, ci si arrangia col metodo moderno: secondo la stampa anglofona, quindi, ora come ora siamo di fronte alle prime notizie ufficiali sull’ellepìotto (LP8) dei Radiohead. Poi vabbé, nell’equazione va anche tenuto conto dell’affidabilità di NME, spesso vicino ai numeri negativi. Ai poster l’ardua sentenza.
Due anni: 24 mesi dopo la pubblicazione di “In Rainbows”, i Radiohead mantengono il più assoluto riserbo sul prossimo album. Una cortina fumogena che potrebbe tardare a diradarsi, se è vero (ed è vero) che solo lo scorso agosto Yorke ha sottolineato come, oggi come oggi, “imbarcarsi in un’avventura dispendiosa e stressante come quella di “In Rainbows”… ci ucciderebbe”.
Che peccato, o che fortuna. Ero pronto a sputare tutto il più banale dei veleni su “Ad ogni costo” di Vasco Rossi, la cover di “Creep” (Radiohead) che funzionerà come singolo per lanciare non ho capito bene cosa. Sarebbe stata la solita invettiva di quelli che “madonna quanto mi sta sulle palle Vasco”, che poi ci vuole veramente un attimo. Prendersela con l’ometto di Zocca è ormai opera talmente comune che fa il giro e diventa quasi fastidiosa.
Un po’ in ritardo e giusto per aiutare i due o tre che se la fossero persa: “These are my Twisted Words” è la nuova canzone (o giù di lì) dei Radiohead. Non doveva uscire, ma poi qualcuno l’ha fatta uscire e gli ex ragazzetti di Oxford hanno seguito a ruota con un download gratuito dal sito (ovviamente consigliato). Si sono anche incazzati come delle api. Perché qualcuno ha parlato di “Wall of Ice“, ovvero di un nuovo EP che il gruppo avrebbe reso disponibile in formato digitale già in questi giorni. E invece nulla, per ora, e quindi se la sono pure legata al dito lanciando insulti a chi “disinforma”. Come, però, ha fatto notare qualcuno: non è che si sia discusso della faccia strapazzata di Yorke, ma solo della voglia di nuova musica da parte del simpatico complessino inglese. Anche perché, viste le interviste recenti…
E’ morto Gianni Baget Bozzo. Cioé, Padre Gianni Baget Bozzo. Tipo due mesi fa e passa, e nessuno mi ha avvertito. Non ricordo nemmeno urla e strepitii alla TV, il che può forse essere legato al fatto che non seguo alcun telegiornale tranne l’unico davvero valido (Sky, canale 200). Però non mi sono accorto di nulla nemmeno sul Corriere. Che botta. Cioé, ho anche visto che sul relativo articolo ancora presente su Corriere.it ci sono commenti che illustrano l’uomo come uno dei più grandi pensatori-giornalisti vissuti di recente. Il che è indubbiamente interessante. Poi ho pensato che forse era meglio mettere le cuffie e quindi son qua con quel “Down on the Upside” che a tutti piace odiare, ma che alla fine ce la fa anche. Assolutamente non come i vari “Badmotorfinger” e amici, ma ce la fa.
Il fatto che sia morto, comunque, impedirà con buone probabilità a Giannino di passare alla cassa elettronica del negozio virtualissimo e virtuoso dei Radiohead, che da poco ospita anche il download di alcune canzoni/dischi. Tra cui spicca la seconda metà del mai troppo amato “In Rainbows”. Ora, si possono perdere ore a chiedersi perché mai nei negozi sia arrivata l’edizione da un solo disco, dato che l’opera è concettualmente e slurpamente al completo solo se si chiude all’ultimo secondo di “4 Minute Warning”. Ma vabbè. Un’ingiustizia cosmica a cui gli stessi di Oxford provano a porre rimedio mettendo finalmente a disposizione di un certo pubblico (non quello da negozio quindi) le canzoni. Tralasciamo il fatto che, al 99,99%, quello stesso pubblico se l’era già procurato per vie traverse o con il Super Box Deluxe Edition Yeah Yo!, come aveva fatto il sottoscritto. Però… però si acquista in blocco a sei sterline. Che sono poche tutto sommato, meno dei 9 e rotti Euro di iTunes. Però il formato è solo .mp3 e mi pare di capire (senza procedere all’acquisto imprevisto) che non ci siano opzioni relative alla qualità degli stessi, presumibilmente fissata a un 160vbr come fu ai tempi “In Rainbows”. Ma… ma! Cadano gli dei! Qui si paga! Ai tempi s’era tanto discusso di questo “paga quanto vuoi, anche nulla”, tutto quel chiacchiericcio, lo scossone al mondo dell’industria discografica… Ecco, sarebbe bello parlarne, ma poi mi viene fuori una faccenda troppo lunga, quindi rimando a un futuro post. Però insomma, se volete finalmente spupazzarvi la seconda parte del più bel disco degli anni 2000 dei Radiohead, ora potevate farlo. E “Kid A”?
Gli anni zero, che vanno a chiudersi, hanno regalato momenti imperdibili di grande musica. Anni che né la Summer of Love né il beat anni sessanta o il carrozzone tra hard e prog dei settanta avrebbe potuto immaginare. Episodi di vera e propria infinita e irripetibile arte cristallina. Da ripercorrere coi dieci dischi, uno per anno dal 2000 al 2009, presentati in una lussuriosa serie di post. Il primo, imprevedibilmente, è questo. E parla del disco del 2000.*
Non c’è niente che sia al proprio giusto posto in “Kid A”. Arrivi a casa e scopri che non esiste alcun libretto in senso stretto del termine, prima di ritrovarlo dietro il supporto per il CD. Evidentemente non al suo posto. E una volta che il disco è nel lettore scopri con orrore che a Yorke e Greenwood è definitivamente esplosa la testa: infilati gli strumenti in una sorta di cubo di Rubik interdimensionale, hanno girato più o meno a cazzo di cane un po’ di blocchi fino a scompigliare tutte le perfette facciate. Non si capisce più nulla, magari per mesi, forse solo per qualche ora, più probabilmente per dei giorni. Quelli, fatti di ascolti ininterrotti, che servono perché un singolo suono, imprevedibilmente e senza apparente motivo, rimbalzi di spigolo sulla corteccia cerebrale. Lì rimane ficcato per circa dieci anni, aprendo la strada alla comprensione dell’amore. L’amore fatto di pareti che si sciolgono del disco che manda in frantumi i Radiohead per le radio e li innalza fino all’Olimpo degli intoccabili per i super snob e chi ha maturato una vicinanza di gusti e di sensi con il gruppo di Oxford. Sta di fatto che “OK Computer” viene preso a badilate e “The Bends” smembrato pezzo per pezzo e infilato in un congelatore. Entrambe le identità precedenti sopravviveranno, per tornare a infilare il piede nella porta degli studi di registrazioni negli episodi discografici successivi, ma nel 2000 è solo, sempre e comunque “Kid A”. Il manifesto della volontà dei Radiohead di fare esattamente sempre e solo quel che gli gira di fare. Qualcuno, ad anni di distanza, inizia a farsi puzzare un po’ il naso, sostenendo che, dopotutto, roba come questa l’avevano già fatta in tanti. E sarà anche vero. Sarà anche vero che ci sono stati pittori dell’elettronica sotto-ritmo, della deviazione strumentale e dell’esplorazione di campagne lisergiche… ma non erano i Radiohead. Non erano i Radiohead che questa insalata di beat e distorsioni tra l’allucinato, l’onirico e il disperato le sparano in faccia ai milioni di fan e ai migliaia di giornalisti che speravano di aver trovato i loro nuovi U2. Se così fosse, “Kid A” è il loro “Achtung Baby”: il suono di quattro uomini che abbattono con un accetta il loro passato. Alfieri della schitarrata un po’ pop e un po’ arterio sclerotica tra “Pablo Honey” e “OK Computer”, Yorke e Greenwood praticamente annullano i riff comunemente concepiti. Paladini della canzone da adolescente sfigato col ritornello da mugugnare di fronte alla Smemo aperta (“Creep”), il gruppo rinnega pressoché totalmente la tanto chiacchierata “forma canzone”, tanto da far gridare al miracolo quando si sente qualcosa di immediatamente comprensibile in “Optimistic”. Portavoce di alcuni strepitosi videoclip a cavallo tra “Just”, “Street Spirit [Fade Out]”, “Paranoid Android” e “No Surprises”, per “Kid A” si affidano a semplici episodi di una serie di visualizzazioni dalla pretesa artistica e quindi totalmente invendibili su MTV (non che fosse previsto alcun tentativo, comunque). Quel che rimane, consegnato agli annali, è una lunga e dilaniata disquisizione sonora sul volgere del secolo. Una nenia tribale da impasticcati tristi o fattoni con le allucinazioni. Sempre il buon Johnny (Greenwood), intervistato, dirà che per il disco tutti hanno dovuto imparare nuovamente a suonare. Per il miglior album del 2000 si può anche fare.
Gli altri classificati:
Un’ottima annata quella che ha tenuto a battesimo il 21° secolo. Nel gruppo misto che, per non far torto a nessuno, si posiziona parimenti dietro i vincitori si riconoscono chiaramente: The Smashing Pumpkins (“Machina: the machines of God/Machina II: friends and enemies of modern music”), Baustelle (“Sussidiario Illustrato della Giovinezza”), Subsonica (“Microchip Emozionale”), Coldplay (“Parachutes”), Queens of the Stone Age (“Rated R”) e The White Stripes (“De Stijl”).
* non è vero eh, gli anni 2000-2009 sono stati una mezza chiavica. Soprattutto dopo essersi sparati la prima metà degli anni ’90 (almeno, a voler fare gli stitici). Lì sì che non si scherzava.