“Lullabies to Paralyze” è il grande disco del dis-amore: la stragrande maggioranza di chi era saltato sulla macchina spedita a velocità smodata nel deserto di “Songs for the Deaf” se ne è andata. Niente più aspirina e Coca Cola, nessun bagordo, le luci si spengono, se ne va pure Olivieri il Diavolo e la creatura di sabbia rimane “solo” a Josh Homme, che ci fa quel che vuole. Dei cinque dischi dei Queens of the Stone Age, è anche quello più difficile da riascoltare, perché in testa ti rimane sempre quella vaga sensazione marmorea, di un blocco difficile da avvicinare. Ma non è meno riuscito di qualsiasi altro album del gruppo, tolto lui, il “Songs for the Deaf” di cui sopra. “Lullabies to Paralyze” è lungo e criptico, non tanto perché sia chissà quale svolta strumentale-filosofica-blabla, ma perché è nero e oscuro come le cose più nere e oscure del primo album, eponimo, del gruppo. E se vieni dalla sbornia di hit parade di “Songs for the Deaf”, è un po’ un casino.
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