Tra i discorsi da snob miei e del Magiustra è spesso rimbalzato quello delle illustrazioni dedicate ai videogiochi. Più precisamente le copertine, che poi sono solo la punta dell’iceberg. Perché in novantanove casi su cento l’illustrazione di copertina è solo il frutto di tutto lo stile (o, meglio, della mancanza dello stesso) palesata all’interno del gioco. Ecco, quante copertine “belle” ma tipo “davvero belle” ricordate? Poche. Ce ne sono di degne, di interessanti, alcune fatte bene, ma di copertine superbamente e amorevolmente ricche di stile… be’, poca roba. Molto più facile, invece, che vengano pensate e realizzate unicamente come dei cataloghi dell’Auchan, giusto un filo meglio. Il che ci sta anche, dato che tutto sommato a quello servono: devono accalappiare l’attenzione e farsi volere bene da qualche banconota.
Soprattutto nel caso di giochi di medio livello, la copertina è probabilmente il primo e ultimo mezzo di comunicazione/pubblicitario cui ci si possa affidare. Spazio risicato nelle riviste offline/online, niente campagna televisiva e quel neo del modello di distribuzione unico e limitato che tarpa le ali ai videogiochi da anni. Quindi giusto così, purtroppo. Però… però poi capita di vedere qualcosa di simile al lavoro svolto da Robert Penney (cfr. immagine in apertura di post) o quello di tanta altra gente sull’internet e un po’ ci rimani male. Va bene, in realtà la questione-Penney è più sfaccettata, perché il valore aggiunto è tutto dato dalla memoria, dal retroamore e via andando (oltretutto, in questi casi, si parla semplicemente di film-riadattati-a-videogiochi che mai furono). Ma, invece, i finti “videogiochi se fossero stati libri” che incollo qua sotto? Da pulirsi gli occhi.