San Siro dà, San Siro toglie: e alla fine rimango con il dubbio di non aver capito come posizionare il concerto, prima delle due serate che gli U2 dedicano a Milano all’interno del loro 360° Tour. Durante i primi venti minuti è tutto un guardare fisso, interrogativo, con occhiate stupite a mio fratello e alla Signorina Lucia… c’è qualcosa che non va. A differenza dei Depeche Mode, questa volta siamo in alto: niente prato, terzo anello. Non per scelta, ma per obbligo (Ticketone, sto guardando te). Il clima è libero, felice e appassionato. Scomparsi i poveracci che hanno riempito il finto parterre di Gahan e soci solo per mirare a un po’ di materia prima facile, magari lanciando birre a cazzo un po’ ovunque, qua ci si deve sorbire al massimo una confraternita teutonica dedita alla pulizia-con-panno-igienizzato delle seggioline. Non capiamo, ma ci adeguiamo.
Lo shock, quello accennato prima, però rimane: “ehi, ma si sente da schifo!”. Ma tipo da schifo. Ma tipo troppo da schifo e in maniera troppo improbabile per essere un semplice problema strutturale dello stadio: la voce arriva ora nitida, ora velata, a tratti possente, altre volte ovattata. La stessa sensazione di quando un suono una voce vengono momentaneamente nascosti da un ostacolo, una finestra, una persona che passa. Non può essere. Misteriosamente, dopo i primi cinque o sei pezzi, la situazione migliora. E’ anche il tempo che gli U2 si sono dedicati per voler bene allo splendido “No Line On the Horizon”, che tiene a battesimo il concerto con le prime quattro canzoni.
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A 68 anni Bob Dylan potrebbe fare il Bob Dylan, il monumento di se stesso: una riproduzione in marmo della leggenda, appoggiato ancora sui palchi di mezzo mondo, come un magro e leggendario juke box con la cassa gracchiante. Nessuno troverebbe granché da ridirci. Invece, a 68 anni, Bob Dylan rifa quello che vuole del Bob Dylan che fu e che è, trovando ancora posto per rotolare un po’ dove vuole, senza apparente direzione per una casa, come quelle altre famose pietre di cui ha celebrato la voglia di esplorazione mezzo secolo fa. Completo nero e nemmeno mezza parola rivolta al pubblico, Mr. Bob fa quello che vuole, come sempre. Va dritto per la sua strada e si mette al centro del baretto, prende le strisce in sovraimpressione dei suoi testi e le legge, le strappa, le mastica e le risputa arrotolate al pubblico. Non sta effettivamente cantando. Non sta cantando come avrebbe fatto se fosse il juke box di cui sopra almeno. Sta rilanciando le parole grattate e deformate a piacimento, riarrangia le liriche come le musiche e non regala al Mediolanum Forum un’operazione nostalgia. Se dopo più di quarant’anni Dylan va ancora in giro per i quattro angoli del globo è perché non si è arreso all’idea del suo stesso mito, così deve rifare suoi i pezzi che lo hanno incorniciato nella mitologia, senza che le canzoni riescano a diventare qualcosa di più grande di lui, senza farsene possedere. Sono ancora le sue canzoni e, per tanto, ci fa esattamente quello che vuole. Il risultato è un’iniezione di sfrontatezza e rilassatezza, di indicibile magia e brividi. Primo, perché trova il punto di equilibrio tra la scaletta che gli va di fare e quella che comunque offre sufficienti motivi per farsi prendere da un coccolone (“Ballad of a thin man”, “Just like a woman”, “All along the watchtower”, “Stuck inside a mobile…”!). Secondo, perché lo show è una lavatrice del tempo, un cestello lanciato in centrifuga che riporta il palazzetto dello sport in un’altra epoca, con i fari di grosse Cadillac a illuminare la band da dietro, in mezzo a un qualche campo coltivato improvvisato palco, con le lampadine che cigolano appese sopra lo stage, in un’America di decenni più giovani. Terzo: perché per questo è l’unica occasione possibile per ascoltare questo rock. Questo modo di fare. Questo splendido inno al folk e al jazz che danzano un valzer seguendo una stratosferica sezione ritmica e vengono lanciati nell’iperspazio di Urano dalla voce di Dylan e da quello che ha avuto il coraggio di suonare la chitarra solista sulla già citata “All along the watchtower”. Per dire ai propri figli “io c’ero”, ma con un senso, e senza muschio sotto il sasso.
Stayin’ alive 2009
Il concerto dei Franz Ferdinand di settimana scorsa al Mazda Palace ha confermato i dubbi e le certezze su “Tonight: Franz Ferdinand”, terzo sforzo degli scozzesi. Il posto era sbagliato, il secondo disco era in parte sbagliato, questo va molto meglio. Il concerto perfetto dei Franz Ferdinand non ha niente a che vedere con un palazzetto dello sport, ma ha molto a che vedere con un locale piccolo, un club, qualcosa di simile al Rainbow e al Rainbow li ho visti la prima volta (2003 o 3004?). Costo: 6 Euro, disco da promouovere: il primo, risultato: eccellente. Il Mazda Palace era sbagliato e dispersivo, soprattutto mi ha convinto che il secondo disco mancasse della forza naif del primo, provando a replicare la ricetta a tavolino. Non era male, ma allora decisamente meglio “Tonight”. Teoricamente è la stessa faccenda, ma questa volta Kapranos e soci sostituiscono all’irruenza caciarona della prima pubblicazione una cura maggiore per i suoni e una dimensione tutta nuova data dall’aggiunta delle tastiere. Perdono un po’ di chitarra, almeno in quanto a “volume” e fracassamento, ma guadagnano in pulizia e dinamismo. A partire dal singolo che apre la faccenda, “Ulysses”, è palese che tutto funzioni meglio. Con un occhio ai suoni e ai sapori retro, e con i riff spesso e volentieri accompagnati dalle suddette tastiere o da qualche effettino elettronico semplice semplice, ma efficace, “Tonight” porta a casa il risultato. Non è “Franz Ferdinand #3”, ma una discreta (seppur minima) evoluzione. Il gruppo lavora meglio anche singolarmente, con più spazio per ogni scolaretto, il che, fortunatamente, non si traduce in pezzi algidi o anonime prove di abilità progressive: i Franz Ferdinand non potrebbero mai provarci, né forse sperarci. Grazie al cielo. Chi si era stufato dopo due mesi dall’uscita di “Franz Ferdinand”, non avrà nulla da cercare qua dentro, nella nottata brava scozzese, ma chi pensava che fosse solo “You Could Have It So Much Better” a mostrare fasi di stanca, allora può godersi Tony Mac Manero con gioia.
Franz Ferdinand – Tonight (2009)
Domino – 42 Minuti
Queste dovete ascoltarle: Ulysses, Bite Hard, Lucid Dreams, Can’t Stop Feeling.