Giornata tematica: questa è l’altra fraccia della medaglia, ovvero il precedente post dedicato al nuovo disco dei Beastie Boys. A differenza dei tre di New York, Vedder e soci (e il loro Tenclub.com) non si sono ricordati/degnati di spedirmi aggiornamenti dedicati al nuovo lavoro, che quindi scopro con indecente ritardo. E indicibile mestizia. Verrà pubblicato il prossimo 22 settembre (rendendolo fin da ora il mese più ciuccelloso dell’anno), si chiamerà “Backspacer” e… e si chiuderà dopo soli 36 minuti di musica. L’ultimo dato è tutto fuorché ufficiale, ma così giura e spergiura una rivista teutonica che oltretutto si spinge molto più in là, fino a commentare ogni singola canzone. Di sicuro c’è il nome, ma anche l’esibizione al nuovo The Tonight Show with Conan O’Brien di “Get Some“, forse primo singolo del disco. Forse no. Poi ci sono questioncine tipo la distribuzione “a mano” negli USA, fatto salvo l’accordo con Target come unica catena autorizzata alla vendita; l’arrivo in Europa attraverso Universal e… e un’altra faccenda ridicola dopo il click.
Hot Sauce Comittee Part 1
Il tempo è una roba vergognosa: non ti rendi conto e non ne hai più. Non ti rendi conto ed escono fatti e cose sui gruppi di cui ti interessa qualcosa… e te le sei perse. Le uniche mailing list a cui ci voglio del bene sono quindi quelle dei gruppi/artisti, come quella appena catapultata dai Beastie Boys e dedicata al nuovo album. Poche righe per scoprire che: è stata aggiunta una promettente coda al titolo (“Part 1”), sarà pubblicato il prossimo 25 settembre, porterà con sé 17 tracce, due pensate per ospitare NAS e Santigold. E dopo il click, una questione davvero ridicola…
Le ultime volte che è successo c’era un aereo da prendere o qualcosa di letteralmente straordinario: mi sono svegliato alle sette meno un quarto. Di mattina, precisazione meno banale del previsto quando si parla di vita da freelance. E difatti non è più vita da freelance: dal 22 giugno 2009 e per un anno (rimanendo nel campo delle certezze) ho firmato una quantità di fogli che mi incasellano come Redattore Web dell’ufficio New Media di Giunti Editore. Il che si traduce nel dover raggiungere Milanofiori ogni mattina entro le nove. Ovvero: sveglia alle 6.45 circa. Ma il primo viaggio ha già dimostrato che c’è ampia manovra di ottimizzazione, così come ai tempi gloriosi della scuola: ritengo credibilmente di poter puntare a 15 minuti (se non 20) extra di sonno, per poi affrontare in dieci minuti il contatto con la realtà, la doccia e infine la colazione/pranzo di Zero.
Il primo giorno viene archiviato con una buona dose di (yeeeh!) ottimismo: non solo il servizio Ore Sette del Corriere della Sera ha ora una funzione imprescindibile, ma tornano anche a farsi vedere tutti quei bei momenti a base di walkman (ora naturalmente è un iPod) e di letture su treno, metropolitana e addirittura autobus. Due palle? Be’, sì, fondamentalmente un po’ due palle. Ma nemmeno troppo. In poco più di un’ora sono atterrato a Milanofiori, disperso per l’ennesima volta tra i dedali del quartiere-da-uffici tutti uguali.
Tutto molto bello, ho anche imparato dei fatti nel primo giorno di lavoro. Cosa che non succedeva da anni, per dire. Ora il ritorno, che sarà peggio dell’andata.
L’annuncio degli annunci
La passione recente, nel mondo dei videogiochi multicolori, è quello di fare gli annunci degli annunci. Lanciano dei comunicati stampa in cui si annuncia ufficialmente che il giorno X verrà comunicato qualcos’altro. E’ tutto molto bellissimo. Per questo, e per smuovere il blog fermo da quasi una settimana, che annuncio l’arrivo di alcuni post domani. Almeno uno, probabili due o tre. Con foto, addirittura! Dato che recentemente siamo arrivati a una media di circa 700 visite al giorno (640 sono mie alla bacheca di WordPress, ma non c’entrano), è giusto tenere da conto i tanti fanz. Evviva!
Checatering, checatering!
“Sony Computer Entertainment Europe (SCEE) oggi ha annunciato di aver esteso fino al 2012 l’accordo di sponsorizzazione con la UEFA per la UEFA Champions League e la UEFA Super Cup (Super Coppa Europea, ndtZ!) nel 2009, 2010 e 2011“. Poi blablabla, siamo coinvolti nella faccenda da nove anni, blabla, il football è nel nostro DNA da molto tempo, blabla. Bla. Che mestizia. In altri tempi sarebbe stata una delle notizie dell’anno: scontata, ma più che benvenuta. Gli altri tempi erano quelli che facevano piovere in redazione biglietti per le partite di Champions League. Dopo il cambio, le cose sono andate meno bene. Complice anche l’assenza del giovane Simon in zona cannone-spara-tagliandi omaggio, i biglietti sono semplicemente spariti. Un po’ lo scazzo. Un po’ l’essere crollati nelle classifiche dei PR (suppongo). Un po’ la vita che va via via peggiorando perché sennò cosa ho ascoltato “Faith” e “Seventeen Seconds” a fare?
Di tutti i privilegi, in realta molto relativi, di cui ho goduto in tredici anni di onorabilissima attività para-giornalistica, il biglietto gratuito per la partita di Champions era il momento di maggior sfregio verso il “poveraccio che se lo deve pagare”. Momenti belli, brutti, noiosi, strepitosi, medi. Ma, in generale, da acchiappare al volo: la strada quasi sempre sgombra tra Milano e Torino per arrivare al Delle Alpi; l’impareggiabile catering pre-partita e le torte + pasticcini a metà incontro; i posti in tribuna lussuosa assolutamente da stropicciarsi gli occhi; un paio di volte pure il parcheggio privato. Cose belle, ma davvero belle. Entrare nella suddetta zona catering e leggere i monitor interni della UEFA su cui scorrono le formazioni, con le discussioni dell’ultimo secondo a base di Patriarca. Il viaggio con la musica che ogni tanto andava anche data in gestione al Patriarca di cui sopra, che grazie al cielo aveva già perso le abitudini discotecare pasticcate degli ultimi anni ’90. Il rumore dello stadio e le luci. Il rombo del pubblico. Il riscaldamento con “minchia Pavel, grande Pavel!”. La partita col Bruges leggendo il giornale e fischiando alla curvettina belga sopra di noi che osava seguire la partita più noiosa del mondo. Gol di Del Piero. Di testa. Ancora state lì a rompere? Andate a casa dai, che è pure lunga. I soliti ottavi o quarti in cui si usciva giocando male, ma male, ma maaaaale. La partita in cui ho portato mio padre, che ancora oggi ci vado fiero e poi ho mandato una mail a Simon per ringraziarlo, col cuore in mano. La partita: LA partita. Juventus-Real Madrid, quella del gol di Zalayeta. Quella con decine di migliaia di persone che salutano Ronaldo (“gordito!”). Quella che c’era anche Ualone, con il cappello da pescatore, zitto e un po’ incazzato seduto mentre tutto lo stadio (per l’occasione, più unica che rara, stracolmo) si alza e grida. Una cosa che se non ci sei stato, non lo sai. Poi l’ultima, quella con l’Arsenal che andrà a perdere in finale col Barcellona (2006), con Nedved che si fa espellere quando finalmente si stava iniziando a fare qualcosa. E con me e Luca che facciamo il Grande Gesto (GG), ci alziamo per andarcene prima. Usciamo a sedici secondi dalla fine, quindi non è che fosse ‘sta grande presa di posizione, ma vabbé. Poi la B, poi il cambio, poi la mestizia. Poi più nulla.
Ma è stato bellissimo finché è durato.
Il barile senza fondo
Nuovo colpo gobbissimo di Majesco, che, ravana ravana, tira fuori dal cilindro Mad Dog Mac Cree e lo incastra in uno splendido disco per Wii. Giusto in tempo per smentire chi credeva che si fosse recuperato tutto il recuperabile. Ma attenzione, non è che son lì a pettinare i cowboy quelli, in Mad Dog Mc Cree Gunslinger Pack (28 agosto in Europa) verrano infilati la bellezza di tre giochi: Mad Dog Mc Cree (1990), Mad Dog 2: The Lost Gold (1992) e The Last Bounty Hunter (1994), che teoricamente non ha a che fare coi primi due, ma veniva comodo far finta che si trattasse di una trilogia. Perché, se passasse per buono il messaggio che “anche quello si giocava nel vecchio west”, allora c’è anche da dire che la prolifica American Laser Games (responsabile dei giochi di cui sopra) aveva confezionato almeno altri due o tre titoli del tutto simili, sempre a base di stelle di latta e sabbia.
La macchina del tempo messa in moto da Majesco permetterà finalmente di rivivere alla grande i bei tempi delle sale giochi dei primi anni ’90, in cui il gigantesco schermo (la versione più lussuosa ne presentava uno a 50 pollici) di Mad Dog Mc Cree attirava per la bellezza di sei minuti tutti i convenuti. Poi ti accorgevi che era una delle due o tre cose più inutili che ci fossero e che magari il gestore Strozus chiedeva anche un doppio gettone, e allora via a leccare l’asfalto che era troppo più meglio. A questo punto ci starebbe anche la conversione di Holosseum. Non c’entra una fava? Volendo sì, non è la collana “riproposizione di roba oscida dell’altro altro altro ieri”?
La verità è che voglio Rad Mobile. Era pietoso ai tempi, ma forse ha fatto il giro.
Accosciato tra il limite estremo del palco e la batteria, in completo argentato, Mike “Sono il diavolo” Patton stringe con due mani il microfono e delira le urla che chiudono “The Gente Art of Making Enemies”: “…never felt this much alive”. Ora, tutto c’è da dire del concerto dei Faith No More al PalaSharp di Milano, tranne che fosse ispirato e promosso da un qualche soffio vitale. A ben pensarci è proprio il concetto (e soprattutto la realtà) di soffio a mancare: spostato dal Regno delle Zanzare (Idroscalo) al Regno del Cemento (PalaSharp), il peraltro giovanissimo e contrissimo Rock in Idro ha vinto un tasso dell’umidità del settecento per cento, la totale mancanza di ossigeno, un calore da deportazione messicana e un odore da stalla in macerazione. C’è palesemente troppa gente dentro al palazzetto, la temperatura è ignobile anche se sono le nove e mezza (di sera) quando arriviamo e i Limp Bizkit si stanno chiedendo perché diavolo dovrebbero suonare lo stesso giorno dei Faith No More e rendere noto a tutti quanto non valgano le calze di Patton e soci. E ce n’è troppa poca fuori, di fronte al Dj maranza-molto giovane che parla un linguaggio così cool che andrebbe preso a porfidate sulle tempie, elargite in ampie porzioni cubettose. Arriva a dire che “[cantantessa X] ce la butteremmo giù tutti volentieri”. Supponiamo si riferisse alla voglia di farci all’amore, ma non ci sono certezze.
Dentro, comunque, tutto prosegue per il peggio: usciamo dopo 30 secondi, appena in tempo perché Fred Durst inizi la più vergognosa delle testimonianze che lascerà al mondo animale. La cover di “Behind Blue Eyes” degli Who. Roba che fa male ancora oggi. Ritorniamo solo quando c’è la speranza che il concerto dei Faith No More stia cominciando. E comincia. Tra due cover utili come in poche altre occasioni (la “Reunited” d’apertura che è anche l’idiota manifesto programmatico della serata e la squilibrata riedizione di “Poker Face”), c’è tempo, sudore, urla e modo di godersi praticamente tutto il meglio di un gruppo che non ne ha sbagliata una, checché ne avessero da dire i critici del post-Angel Dust. Da “The Real Thing” a “Ashes to Ashes”, da “Be Aggressive” a “From Out of Nowhere”, da “Land of Sunshine” a “Stripsearch”. I due momenti chiave rimangono però “Evidence” e “The Gentle Art of Making Enemies”. Non perché siano in assoluto i migliori pezzi del gruppo (io, di per me, continuo a rimanere fisso su “Angel Dust”), ma perché la prima viene cantata tutta in idioma italico, con risultati ridicoleggianti (in perfetto stile Patton) e Mike che alla fine si lascia andare a un: “però… sembravo Eros, cazzo!”. E la seconda è talmente aggressiva, violenta, strepitosa e lancinante che è da sempre nella mia top 3 del gruppo e quindi, alla fine, tra quella e “Land of Sunshine” ho capito che si poteva e doveva affrontare l’ignobile caldo.
Un’ora e mezza precisa, in cui il gruppo si infila in una macchina del tempo perfettamente tarata sulla prima metà degli anni ’90, con le loro vibrazioni da tastiera eighties, i riff maestosi e quella voce che può (oggi come e forse più di ieri!) spaziare da Berry White a Giorgia in pochi istanti. Una delle voci più incredibili degli ultimi vent’anni, uno dei gruppi più idioti e possenti che ci siano stati al di fuori della lunga onda del grunge (pre-grunge, a dirla tutta). Giù il cappello, su il bastone da Lord avvinazzato che accompagnava ieri Patton.
Gli anni zero, che vanno a chiudersi, hanno regalato momenti imperdibili di grande musica. Anni che né la Summer of Love né il beat anni sessanta o il carrozzone tra hard e prog dei settanta avrebbe potuto immaginare. Episodi di vera e propria infinita e irripetibile arte cristallina. Da ripercorrere coi dieci dischi, uno per anno dal 2000 al 2009, presentati in una lussuriosa serie di post. Il primo, imprevedibilmente, è questo. E parla del disco del 2000.*
Non c’è niente che sia al proprio giusto posto in “Kid A”. Arrivi a casa e scopri che non esiste alcun libretto in senso stretto del termine, prima di ritrovarlo dietro il supporto per il CD. Evidentemente non al suo posto. E una volta che il disco è nel lettore scopri con orrore che a Yorke e Greenwood è definitivamente esplosa la testa: infilati gli strumenti in una sorta di cubo di Rubik interdimensionale, hanno girato più o meno a cazzo di cane un po’ di blocchi fino a scompigliare tutte le perfette facciate. Non si capisce più nulla, magari per mesi, forse solo per qualche ora, più probabilmente per dei giorni. Quelli, fatti di ascolti ininterrotti, che servono perché un singolo suono, imprevedibilmente e senza apparente motivo, rimbalzi di spigolo sulla corteccia cerebrale. Lì rimane ficcato per circa dieci anni, aprendo la strada alla comprensione dell’amore. L’amore fatto di pareti che si sciolgono del disco che manda in frantumi i Radiohead per le radio e li innalza fino all’Olimpo degli intoccabili per i super snob e chi ha maturato una vicinanza di gusti e di sensi con il gruppo di Oxford. Sta di fatto che “OK Computer” viene preso a badilate e “The Bends” smembrato pezzo per pezzo e infilato in un congelatore. Entrambe le identità precedenti sopravviveranno, per tornare a infilare il piede nella porta degli studi di registrazioni negli episodi discografici successivi, ma nel 2000 è solo, sempre e comunque “Kid A”. Il manifesto della volontà dei Radiohead di fare esattamente sempre e solo quel che gli gira di fare. Qualcuno, ad anni di distanza, inizia a farsi puzzare un po’ il naso, sostenendo che, dopotutto, roba come questa l’avevano già fatta in tanti. E sarà anche vero. Sarà anche vero che ci sono stati pittori dell’elettronica sotto-ritmo, della deviazione strumentale e dell’esplorazione di campagne lisergiche… ma non erano i Radiohead. Non erano i Radiohead che questa insalata di beat e distorsioni tra l’allucinato, l’onirico e il disperato le sparano in faccia ai milioni di fan e ai migliaia di giornalisti che speravano di aver trovato i loro nuovi U2. Se così fosse, “Kid A” è il loro “Achtung Baby”: il suono di quattro uomini che abbattono con un accetta il loro passato. Alfieri della schitarrata un po’ pop e un po’ arterio sclerotica tra “Pablo Honey” e “OK Computer”, Yorke e Greenwood praticamente annullano i riff comunemente concepiti. Paladini della canzone da adolescente sfigato col ritornello da mugugnare di fronte alla Smemo aperta (“Creep”), il gruppo rinnega pressoché totalmente la tanto chiacchierata “forma canzone”, tanto da far gridare al miracolo quando si sente qualcosa di immediatamente comprensibile in “Optimistic”. Portavoce di alcuni strepitosi videoclip a cavallo tra “Just”, “Street Spirit [Fade Out]”, “Paranoid Android” e “No Surprises”, per “Kid A” si affidano a semplici episodi di una serie di visualizzazioni dalla pretesa artistica e quindi totalmente invendibili su MTV (non che fosse previsto alcun tentativo, comunque). Quel che rimane, consegnato agli annali, è una lunga e dilaniata disquisizione sonora sul volgere del secolo. Una nenia tribale da impasticcati tristi o fattoni con le allucinazioni. Sempre il buon Johnny (Greenwood), intervistato, dirà che per il disco tutti hanno dovuto imparare nuovamente a suonare. Per il miglior album del 2000 si può anche fare.
Gli altri classificati:
Un’ottima annata quella che ha tenuto a battesimo il 21° secolo. Nel gruppo misto che, per non far torto a nessuno, si posiziona parimenti dietro i vincitori si riconoscono chiaramente: The Smashing Pumpkins (“Machina: the machines of God/Machina II: friends and enemies of modern music”), Baustelle (“Sussidiario Illustrato della Giovinezza”), Subsonica (“Microchip Emozionale”), Coldplay (“Parachutes”), Queens of the Stone Age (“Rated R”) e The White Stripes (“De Stijl”).
* non è vero eh, gli anni 2000-2009 sono stati una mezza chiavica. Soprattutto dopo essersi sparati la prima metà degli anni ’90 (almeno, a voler fare gli stitici). Lì sì che non si scherzava.
Il Corriere della Sera è ufficialmente l’organo stampa ufficiale dell’Internazionale Football Club. E’ l’unica evidente motivazione che può giustificare una “spalla” di commento pubblicata oggi nella sezione sportiva e firmata Gianfelice Facchetti, figlio di cotanto padre. L’uso comune vuole che, quando a scrivere sia un “invitato speciale”, un non-giornalista del Corriere insomma, due righe ricordino al lettore il perché e il percome della celebre firma. Così non avviene oggi, quindi rimane l’unica ipotesi che Facchetti Jr. sia effettivamente inserito nell’organigramma di via Solferino, evidentemente per distribuire comunicati stampa ufficiali marchiati di nerazzurro. Nel migliaio di caratteri odierni il Facchetti si lancia in un’accorata accusa alle parole di Fabio Cannavaro, capitano azzurro e neo-ri-acquisto juventino, che nei giorni scorsi ha ricordato di aver vinto due scudetti con i bianconeri, puntando quindi al numero 30 della società torinese. Le parole di Facchetti sono gentili e rispettose, non prendono posizione, né fanno intuire una benché minima acidità di stomaco:
Cannavaro insiste in maniera patetica sulla storia dei 29 scudetti, in barba alla giustizia sportiva. Lo fa senza ritegno, senza che nessuno dei vertici federali gli faccia presente quel che è stato e che il ruolo che oggi riveste comporta responsabilità
Così, senza colpo ferire. Ci va giù di fioretto proprio. Prende il capitano, quello a cui l’altro Fabietto impartiva ordini di coreografia (“Alzala alta capitano!”) meno di tre anni fa, e lo definisce “patetico”, “senza ritegno”. O perlomeno così definisce le sue esternazioni. Il Corriere non si premura né di inserire la questione all’interno di un articolo di dibattito, sentendo l’altra campana o, mal che vada, ponendo Gianfelice di fronte alla di un giornalista della testata che possa trattare Facchetti come “uno che ha delle cose da dire a riguardo” e non “la posizione del nostro opinionista Facchetti”. Che, così, pare essere anche quella del giornale tutto. Facchetti non solo ha la miopia di non intuire la visione umana e sportiva di un calciatore che, sul campo, ha sputato l’anima per quei due campionati. Facchetti non solo grida alla lesa maestà dimenticando che suo padre è stato accusato da più fonti (succede proprio in questi giorni al processo in corso a Napoli che, oltretutto, pare deciso a smontare un bel po’ delle verissime verità di quello sportivo organizzato da un ex alta sfera interista) di aver intrattenuto rapporti privati con gli arbitri. Facchetti non solo dimentica che suo padre è stato inibito alla professione per essere entrato, senza autorizzazione, nello spogliatoio di un arbitro nel bel mezzo di una partita (ricorda qualcosa che ha a che fare con Moggi). Facchetti non solo fa finta di difendere l’inattaccabile lealtà sportiva di un club che ha giocato per delle stagioni con calciatori tesserati grazie a passaporti falsi (certificati). Facchetti non solo passa sotto silenzio il fatto che Cannavaro abbia sempre (sempre, inclusi i tre anni al Real) reclamato come propri quegli scudetti, ma che anche Zambrotta per dirne un altro che alla Juve non è più legato, ha detto le stesse identiche cose. Ma soprattutto… lo ha ribadito poche settimane fa Ibrahimovic. Uno che, guarda un po’, arriva all’Inter, gioca nell’Inter, fa vincere l’Inter (e solo grazie a quel “processo”). E che è tuttora nella rosa dell’Inter. Non solo il bon Gianfelice fa tutto questo, ma fa anche la voce grossa, batte i piedi e sembra un po’ il pazzo che grida da solo. Perché si può discutere di tutte le faccende di cui sopra, ma tutti i giocatori della Juventus di quegli anni hanno vinto quegli scudetti sul campo, correndo, legnando, segnando, sudando: umanamente è una convinzione inattaccabile. Tranne che per Mr. Magoo.