Fa più male a me che a voi. “Charlotte Sometimes” è nella mia peraltro inesistente Top Five di sempre dei Cure. Cioé, tipo che oh, levati, una delle loro migliori. Non si tocca. Mamma mia “Charlotte Sometimes”. Cioé non è neppure su nessun disco di inediti. Oh, eh, oh. E via andando. Quando l’anno scorso ho recuperato il singolo in formato 12″ a Londra, usatissimo e “over pressed” (o era da Amoeba?), avevo la barretta della fierezza a livelli stratowowsferici. Poi, in un bollente quanto vagamente inutile venerdì mattina, il fattaccio. Titillato dall’altra metà dell’ufficio vengo stimolato a (ri?)guardare il video della canzone, che trovate bello placido qua sopra. Traendone illuminazioni a ripetizione.
Golvellius: il giro completo
Quando ancora nei fiumi scorreva il miele, le valli dell’hinterland milanese erano perennemente in fiore e i treni arrivavano in orario, i giochi si compravano al Giocheria. Non solo per ovvi motivi (insomma, Giocheria… i giochi… vabbé), ma anche perché era la catena del marchio Giochi Preziosi. E quindi se cercavi qualcosa per Master System o Megadrive, nei suoi primi vagiti, andavi lì. E noi, io e mio fratello coadiuvati dalla benzina e dal buon cuore di mamma e papà, andavamo lì. In particolar modo al Giocheria di Cassina de Pecchi. Un posto perennemente vuoto e tendenzialmente tetro, con le confezioni di tutti i giochi sotto a una teca di vetro che faceva da bancone. Come ho avuto spesso modo di scrivere con fare finto anziano su PSM e NRU, ai tempi l’influenza delle riviste sull’acquisto di un gioco era pari allo zero. Sarà che non esistevano ancora Game Power e Console Mania e per buona parte del periodo nemmeno K Speciale Console. Comunque sia… si andava e si guardava. Il commesso annoiato assecondava la mia storica incapacità di decidere e probabilmente mia madre mandava a ripetizione il ritornello del “te e tuo padre che te l’ha comprato [il Master System]” mentre attendeva per ore. Senza alcun riferimento utile, ci si muoveva completamente a cazzo insomma. E la copertina era un punto di partenza fondamentale.
Mi ero completamente perso la faccenda di Band Hero su DS. Ma tipo del tutto, tanto che mi chiedo se non sia uscito tutto oggi. Fatto sta che Activision è decisa a bissare i successi (più o meno eclatanti) di Guitar Hero On Tour, tanto da lanciare il succitato Band Hero con un bel Guitar Grip e il nuovo Drum Grip, nella figura qua sopra. L’unico modo per permettere a un massimo di quattro Nintendo DS di collegarsi in locale (o anche attraverso la Nintendo Wi-Fi Connection?) e suonare come una vera band finta, emulando il Guitar Hero da salotto. Voce, chitarra e basso (con il Guitar Grip appunto), batteria. Il Drum Grip è solo una copertura in silicone o quel che è, per modificare momentaneamente la faccenda pulsanti della console portatile.
L’anno scorso Capcom ha percorso il Sunset Boulevard a tavoletta come nemmeno O.J. Simpson, portando all’estremo il concetto di “retrogaming”: Mega Man 9 era (ed è) un gioco nuovo solo nei contenuti e non certo nella forma, invece ancorata coraggiosamente a tre, quattro epoche ormai date per chiuse e archiviate. Insomma, un gioco che veniva sviluppato (tecnicamente e non solo) appositamente ponendosi dei limiti al limite (ops) del masochismo. L’idea era di spostare indietro le lancette di una ventina d’anni, tornando a realizzare un gioco con le stesse risorse che si avrebbe avuto a disposizione nella seconda metà degli anni ’80, su di un hardware del paleolitico: quello del NES. Il risultato non era solo quello che raccontava di un gioco concepito in totale 2D con una spruzzata ampia di malinconia, ma anche un gioco rigido. Rigido perché ai tempi i limiti erano quelli e così si poteva fare, ma che nell’anno domini 2008 è diventata solo e soltanto una scelta. Una scelta interessante, il cui esito è però stato quello più che prevedibile: Mega Man 9 non è un gioco antico, ma un gioco vecchio.
Suntone per chi non vuole leggere più di 140 caratteri sull’internet: “In questo post dico che il primo disco dei Foo Fighters non solo è il migliore, ma proprio è un’altra roba”.
Nel suo “La versione di Barney”, Mordecai Richler interpreta il vecchio e mezzo rincoglionito ebreo canadese Panofsky. Dimentica il nome di oggetti di uso comune, confonde le date e mescola a sua insaputa ricordi della gioventù. Io, nella mia Versione Panofsky, ricordo abbastanza chiaramente l’estate del 1995, in particolare un momento: in vacanza nei pressi di Golfo Aranci (Sardegna), frequentavo spesso e volentieri una peraltro malmessa edicola del porto. Primo: perché ero già, inconsapevolmente?, affamato di riviste e affascinato dalle stesse. Secondo: perché in zona non era rara la frequentazione di militari americani (d’istanza lì attorno), il che portava alla presenza di una nutrita gamma di pubblicazioni inglesi dedicate al grande mondo del rock’n roll. Insomma, compravo (o scroccavo) il New Musical Express, mi sciroppavo roba di Melody Maker o Kerrang! e adocchiavo senza vergogna anche le faccende italiane à la Metal Hammer. Insomma, ricordo abbastanza chiaramente di aver letto, in piedi e mezzo ipnotizzato, di un’anteprima del disco dei Foo Fighters. L’omonimo disco che avrebbe debuttato a brevissimo e di cui l’autore del pezzo aveva potuto ascoltare una versione completa: mancavano, però, i titoli delle canzoni. Quindi “Big Me” diventava “I Fell Into”, per dirne una. Eppure è impossibile che sia successo, perché il primo album del post-Nirvana per Dave Grohl nell’agosto del 1995 era già stato pubblicato. Non solo: lo avevo di già, dato che ho delle vere certezze (qui sì) su di una vacanza nel luglio dello stesso anno a Cannes a casa di un mio ex-compagno di classe. Lì mi sono presentato con il disco in mano, costringendolo a ripetuti ascolti e con dei repeat posizionati ad arte su “Good Grief” e “Alone + Easy Target”. Fast forward di un anno, perché ora sono sul balcone dell’appartamento a Vimodrone, durante una festa di compleanno di mio fratello (marzo) in cui si parla, con altra gente che non ha preso bene il buco in testa di Cobain, di quanto sorprendentemente buono sia il lavoro dell’ex batterista.
Salsa cancerogena pt. 1
Buone notizie! I Beastie Boys hanno iniziato a far circolare il primo singolo tratto da “Hot Sauce Committee Pt. 1”: si chiama “Too Many Rappers” e si ascolta con tutta la gioia del mondo proprio qua. Cattive notizie! MCA ha un cancro in zona gola. Robetta, tipo che non dovrebbe raggiungere Hendrix e gli altri. Però c’è e quindi il disco viene posposto a fine 2009 e le date (solo Nord Americane) del tour cancellate. Insomma, due belle palle.
La canzone: siamo totalmente dalle parti di “To The 5 Boroughs”, particolarmente incazzosa, come spesso succede destinata a un numero imprecisato di imitatori o giù da quelle parti. D’altronde è nel DNA dei gruppi yo yo yo sparlarsi contro, e lo fanno anche i granitici Beastie. Un bel ritmo comunque, ma non di quei pezzi col riffone o il campionamento geniale che ti permette di amarli incondizionatamente anche se non ci stai capendo una fava di nulla del testo. Insomma, un pezzo per la gente di Brooklyn. Che va anche bene. Però camminare balzelloni coi pantaloni bracaloni facendo bbbrutto a trent’anni in Stazione Garibaldi verrà più facile con “Too Many Rappers”.
Riflessivamente nel finale: la classe è comunque lasciar parlare la musica anche quando ci si potrebbe arrotolare fetali sugli attestati di stima e i “get well soon” che pioveranno (e sono già piovuti). Come dire: disco rimandato, tour in sospeso, tante pacche sulle spalle, ma la musica c’è ed è questa. Anche con l’aiutino del Nas.
Allora, è stata una serata pienissima. Ho recuperato uno dei classici film per cui pagare il biglietto al cinema anche no, ma se lo passano su Sky allora va bene. Tanto più se lo passano sul neonato Sky Cinema Hits HD: “Transformers”. Davvero uno splendido film del menga nella prima metà, con anche un bel ritmo non esagerato e un altrettanto buona vena ironica (tutta la faccenda della famiglia di Shea LeBoeuf è ottima). Poi, nella seconda parte, diventa un po’ il film che deve per forza infilarci la finta serietà dell’epica del robottone che allora mi commuovo che hanno fatto male alla mia Camaro che poi ci metto anche la moralina. Che vabbene che ovviamente è tutto da calare all’interno del film d’azione da pop corn King Size, però insomma… anche le mille citazioni a “more than meets the eye” poi stufano. Ma vabbene. Tolgo tanto di cappello di fronte a Megan Fox, come d’altronde ampiamente anticipato dal Surgo per secoli, quindi oh, nulla da dire.
Ma poi, finito il film, gustato anche il mini remix strumentale di “Doomsday Clock” verso la fine, è tempo di Internet. E il grande Intertron non ti lascia mai a piedi, soprattutto quando partorisce un male talmente grande da divenire un clamoroso caso di bene accidentale. Da teen-ager avrei gridato allo scandalo, ora ho la delusione vitale per accogliere a braccia aperte il più esplosivo dei demoralizzanti mash-up: Nirvana + Rick Astley. Ed è quello che riempie lo spazio qua sopra. Tremino le colonne portanti del pianeta, è tutto finito.
The Fixer (Pearl Jam)
[Edit: ora con più sondaggio!]
I Pearl Jam non vogliono fare singoli da secoli. Non facevano i video quando volevano fare i giovani che rifiutano il (Video) Star System di MTV. Giocavano a nascondersi con “Mankind” lanciato per non-lanciare “No Code”, poi altro nulla, con il solo ritorno a un effetto-singolo ai tempi della politica incazzata di “I Am Mine” e “Worldwide Suicide”, almeno in parte. Ora che Vedder è tutto un fiorire di sorrisi, brezza marina, tavola da surf e orsetti del cuore con la faccia di Obama, si torna al singolo che in meno di tre minuti dice un po’ poco. “The Fixer” è disponibile attraverso la pagina MySpace (argh!) del gruppo, che quindi non si dimostra sufficientemente amorevole da regalare 320kbps di qualità ai suoi fanz, come peraltro avrebbe potuto tranquillamente fare considerata la posizione che occupa.
“The Fixer” è il primo indizio che dovrebbe aiutare a fare luce sulla direzione presa dai Pearl Jam con il ritorno di Brendan O’ Brian alla produzione. E non è che però sia cambiato un granché rispetto al passato recente. La canzone ha un che di sixties pieni di fiorellini sbocciati, con tanta voglia di positivo perché son vivo, scivola via bene. Il problema è un po’ che scivola, invece di aggrapparsi. La voce del potenziale-martire-che-non-fu è fin troppo lieve e sorprendentemente (come già successo nell’omonimo album del 2006), puntata un po’ troppo in alto per le note che riesce a beccare oggi come oggi il nostro. Niente che davvero non vada bene. Tutto sommato “Backspacer” (20 settembre) potrebbe proprio essere una mezz’ora di gioia di vivere e crema abbronzante, speranze per il futuro e una band che passa in studio per godersela come vuole godersela in quel momento, quasi fosse un pretesto per sparpagliare in giro un’altra manciata di canzoni da suonare dal vivo, in quello che è un quasi tour perenne à la Bob Dylan. Pur con meno precisione e ubiquità del vecchio menestrello (in Europa ci passano poco e volentieri). Che farci con una “The Fixer” che ha anche la colpa di finire in fade-out? Due mesi per scoprirlo.*
Tanto tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, quando si recensiva un videogioco non esisteva la scappatoia del “è un gioco per bambini”. O, perlomeno, si tendeva ad etichettare i giochi che tali apparivano con una decisiva avarizia. In soldoni: succedeva una volte ogni morte di papa, per roba tipo Barbie e la Gioventù Hitleriana o giù di lì. In questo decennio arricchito pericolosamente da almeno una generazione di gente che scrive di videogiochi da un bel pezzo e che quindi si sente “cresciuta”, avviene con allarmante regolarità. Il più delle volte è un circolo vizioso, uno di quelli tipo: “Maurizia Paradiso è una donna orrenda” – “Ma perché è un uomo”.