Ognuno ha bisogno di una luminosa stella da seguire. O perlomeno qualcuno il cui lavoro sia sufficientemente interessante da stimolare gridolini isterici. Per me è Stephen Thomas Erlewine. Era già noto ai tempi del vecchio blog, ma il criticologo, musicologo, recensorologo di Allmusic.com fa due giri attorno a chiunque faccia il suo stesso lavoro. O perlomeno rispetto a chi leggo in giro. Non tiro in mezzo i “colleghi” italiani perché proprio sarebbe di un demoralizzante che mi giocherei tutto il week end. A seguire: la splendida recensione di “Sam’s Town”, secondo disco dei The Killers. Indipendentemente da quel che si pensa del disco (e io sono più o meno totalmente d’accordo a metà col mister), è un grande articolo.
L’ho scritto nella mia biografia, quindi è risaputo: il disco che preferisco, tra tutti quelli firmati U2, è “Achtung Baby”. “Scelta coraggiosa!”, direte. Be’, no, ma chissenefrega? Potrei metterci anche “War”, così, tanto per aggiungere un tocco di snobismo, ma non lo farò (l’ho fatto). E il periodo “Achtung Baby” – “Zooropa” è anche quello a cui sono più legato pensando al gruppo, assieme anche a “Pop” ok. Ovviamente e semplicemente per motivi anagrafici, sono gli anni in cui ho capito che la musica era un po’ tipo troppo meglio di tutto il resto, cioé oh, che storia. E se “Achtung Baby” l’ho scoperto un po’ dopo (per intero intendo, perché sfuggire alle varie “One” o “The Fly” in radio era impossibile), “Zooropa” l’ho vissuto tutto in diretta, su di una cassetta (comprata alla stessa Città Mercato citata qualche giorno fa) poi trascinata al campo vacanze estivo con la scuola dell’epoca. “Pop”, quindi, era il diretto discendente, nel periodo di massima mitizzazione del grande rock’n rock, in cui si scopriva tutto, si leggevano mille riviste (ricordo chiaramente di essermi avidamente spolpata l’anteprima del disco sdraiato sul letto a Vimodrone, grazie a RockStar), si discuteva anche con l’esperto di U2 di casa. Che non ero certo io. Poi il concerto a Reggio Emilia e blablabla. Ma gli anni di “Achtung Baby” e “Zooropa” avevano qualcosa di diverso, bello spalmato evidente sulla videocassetta usata per registrare il famoso concerto a Sidney dello Zoo TV Tour. Ed era un Bono in piena fase “sono Dio, ma sono ancora sufficientemente giovane per fare il coglione. Però sono Dio”. E Dio Hewson si declinava ogni sera attraverso Bono (il cantante autore), The Fly (la rock star scintillante), Mirror Ball Man (la personalità mediatica deviata) e… e MacPhisto. Il diavolo. MacPhisto era figo. Cioé, un vero baraccone mobile, ridicolo, inguardabile, eppure un figo spaziante. Oggi Bono non potrebbe vestirsi da MacPhisto, è fondamentalmente un vecchio devastato, non può (il nuovo disco però è proprio bello forte, ne parleremo in una puntata a sé). Ai tempi andava bene e mi manca tanto. Telefonava alla gente importante e la prendeva per il cippirimerlo, mica pizza e fichi. Era ancora sufficientemente rock per fare meno la star amica dei possenti potenti, quindi poteva permetterselo. Di fronte a quella distesa infinita di televisori, dietro al microfono da cui MacPhisto si prendeva i meriti del capitalismo sfrenato, della dittatura televisiva, dell’elezione di Bill Clinton e via andando. Quello era ancora un Bono vispo e scattante e lo sarebbe tuttora, se non avesse deciso di infilarsi (forzatamente) nel sarcofago con “All that you can’t leave behind”. Ma l’amore è immutato e il concerto (a San Siro) prenotato.
Ovvero: come continuai a farmi crescere la barba, fino a diventare un uomo lupo. Gli Eels, sarebbe a dire E., hanno/ha annunciato il nuovo disco: “Hombre Lobo”. Lo hanno/ha fatto un paio di mesi fa, ma mi ero perso completamente la faccenda. Tanto meglio, dato che accorgendomene oggi sono a solo tre giorni scarsi dall’uscita (2 giugno) e già in zona “lo ascolto sul loro sito per intero”. Certo, la qualità non è sempre cristallina, ma avendo quella solita produzione mezza sospesa tra il lo-fi e il mica lo-fi, non si perde poi moltissimo. E “Hombre Lobo” pare proprio il seguito spirituale di “Souljacker”, il disco del 2001 che è poi anche il mio preferito di tutta la carriera delle anguille, probabilmente assieme all’immancabile “Beautiful Freak”. Rozzo e innamorato, tutto ruvido e peloso, con un cuore da cane cuccioloso, Hombre Lobo ambisce a entrare con violenza nella Top Ten dei migliori dischi del 2009, già piuttosto nutrita oltretutto. Difficile, invece, che ci rientri “Battle for the Sun”, il nuovo dei Placebo. Ma di quello si parlerà in un futuro post. L’occasione mi è lieta per incollare un post pubblicato poco più di un anno fa sul vecchio blog. Esatto, è il momento del riciccio ufficiale.
“Ci sono dischi che ti fanno sentire intelligente e acuto, uno che di musica ne sa. Per dirne uno: sono convinto che il mondo disprezzi “Souljacker” degli Eels, ma magari no. L’importante è che sia un gran bell’ellepì e che oggi giri vorticosamente (si fa per dire, di .mp3 trattasi). Con quel barbone un po’ così e un sottotitolo stupido ma graffiante, “Souljacker” rappresenta il punto più alto della produzione di Mr. E, assieme all’immancabile “Beatuiful Freak” e ovviamente a mio insindacabile parere. Dopo e poco prima ci son stati lavori pretenziosi, anche troppo, interessanti ma sempre un po’ dispersivi, verbosi. Intriganti, ma sempre un po’ sfocati. Camminando bassissimo, rasente terra, “Souljacker” vince bene e vince facile solo a un primo ascolto, perché comunque di roba per cui ammazzarsi di seghe ce n’è: tra xilofoni, percussioni a cazzo su un secchio della spazzatura, sovraincisioni, violini teneroni e lancinanti…
L’amore arriva anche da due ricordi precisi, entrambi coccolosi. Il primo mi vede camminare placido con il discman in zona Duomo. Era novembre, credo, il disco era appena uscito e ciondolavo inutilmente tra la neonata FNAC (quasi neonata, insomma), Virgin (ancora in vita) e Porta Venezia. Nel mentre qualche telefonata di un troione da competizione che comunque ha avuto qualche mese di attenzione (e anche altro, ok). Però era una bella giornata, una sera luminosa d’inverno, di quelle che se ci giri un film a New York fai i sodli, ma che in zona Mediolanum fa un po’ meno scena.
L’altro ricordo: il tour degli Eels a supporto del disco. Ho tenuto per un paio d’anni buoni una maglietta nell’armadio (“Man Driving / Band Touring”), un po’ piccola per il sottoscritto, anche perché era dell’ex che aveva partecipato attivamente al concerto. Allora ancora poco ex e molto presente. Il concerto verrà ricordato per il pubblico più fastidiosamente inutile della storia dei concerti a cui abbia assistito. Fermi, zitti, muti, congelati… su un disco come “Souljacker”. Bisogna davvero essere dei milanesotti protofighetti del cazzo. Mr. E taglia la voce alla chitarra, prende il microfono e chiede placido: “che giorno è? Sabato? Si può fare rock’n roll il sabato vero?”, evidentemente stizzito dalla noia mortale. A calci, certa gente va presa a calci!”
Che giornata di scazzo estremo. E dire che avrei anche poco da fare, giusto Guitar Hero Metallica, di cui ora scrivo due pagine e saluti. Ma che scazzo. Non solo perché la barra della pennata della chitarra di World Tour (primo strumento che compro nella mia vita di semi appassionato di giochi musicali) ha deciso di semi-rompersi, così, perché si sentiva troppo prolifica. Ma anche perché c’è dello scazzo strutturale un po’ incomprensibile. Che palle. Però siamo arrivati a un’uscita decente (256kbps) dell’ultimo della Dave Matthews Band. La copertina è carina, perlomeno, e il disco in sé non è una colata lavica di nulla come quello che lo ha preceduto nel 2004. Anzi, c’è già un bel pezzo vecchio stile (“Dive In”). O magari anche due o tre. C’è anche l’apertura e la chiusura con pezzi del Signor LeRoi, come già il Feiez di dieci anni fa. Che scazzo.
Quando sono andato a prenderlo era buio. Un buio pomeriggio tardo autunnale nel 1998, lungo la stradina poco illuminata che fa da controviale nascosto alla Padana Superiore. Eravamo in tre, in bicicletta se non ricordo male: io, l’inesperto e l’allora interessante Valentina. Niente Mariposa o centro Milano, quella volta, ma solo Città Mercato, la prima d’Italia (quella di Vimodrone), quindi roba che contava. Anche al ritorno era buio. Ed è rimasto buio, tutto il tempo, a ogni ascolto di “Up” negli undici anni che sono seguiti. Dal primo vero disco del gruppo di Athens post-Berry non sapevo cosa aspettarmi, né immaginavo che sarebbe finita così, ma ai tempi ero decisamente meno intossicato di musica, quindi si comprava e si ascoltava senza farci sopra chissà quali voli pindarici (o seghe bimani, se la poesia non è nelle vostre corde).
Dopo l’esplosione amarognola di “Automatic for the People” e la voglia di rock ruvido di “Monster” era stato il momento dello strepitoso “New Adventures in Hi-Fi”, un disco suonato e registrato per la stragrande maggioranza del tempo “dal vivo”. Con l’intero gruppo abile nel ritagliarsi spazi durante il tour del disco del 1994. All’uscita delle avventure in lo-fi, Berry se ne era già andato, tutto preso dalla sua voglia di mantenersi vivo, ma comunque presente nel disco. Per “Up” i R.E.M. dovevano reinventarsi da zero, o qualcosa di molto simile. E lo fecero con un album che era l’esatta negazione del suo predecente: tutta potenza “da gruppo” quello (come molte delle prime pubblicazioni), tutto studio questo. Nuovi pedali per Buck, che si inventa un suono caratteristico per quei nuovi anni della band e soprattutto attenzione certosina in fase di produzione, con sovra incisioni, riff e accenni spediti in loop e pezzi costruiti come il significativo puzzle di una pozzanghera. In cui tutto è uguale, ma ogni minuscolo elemento in realtà ha una potenza innegabile. “Up” continua a vivere senza mai accelerare troppo forte, senza mai fermarsi davvero, continuando a riprendersi e a citarsi addosso. Una lunga cavalcata di disillusione notturna, lontana dalle sfuriate post-grunge di “Monster” e dai palchi ridenti di “New Adventures in Hi-Fi”. “Up” è un disco strepitoso, capace di cambiare più volte anima ma mantenendo inalterato l’umore. Un disco soprattutto eccezionale sul lungo periodo, come quella sera in cui le inutili sessioni di gioco al cialtronissimo Darius-G per PlayStation (dono di Ualone, conosciuto da poco all’epoca) mi accompagnarono alla scoperta di “Diminshed”. Poi di “Parakeet”, poi di “Falls to Climb”, fino a cogliere in tutta la sua magnificenza la seconda, splendida, metà del cielo crepuscolare del disco. Una seconda metà avvolgente come solo le serate autunnali riescono a essere, con suoni elettrici che riescono anche a farsi allucinati e la suddetta produzione che non diventa mai “troppa”, ma solamente e perfettamente giusta. Lo stesso equilibrio che il disco successivo, “Reveal”, proverà a ripetere, questa volta alla luce del sole. Senza riuscirci.
R.E.M. – Up
Warner Bros – 60 minuti Queste dovete ascoltarle: Hope, Walk Unafraid, Diminished, Falls to Climb
Non sono uno aperto alla novità e alla diversità culturale quanto supponevo. Ogni tanto me ne accorgo. Prima penso: “dio santo, quanto sono superiore”. Poi entra in gioco il jumper del politically correct e si passa a un: “mi pare corretto, anzichenò, rispettare questa scelta che mi vede solo inizialmente nemico, però magari posso estirparci via* un po’ di saggezza extra”. Dopo dieci minuti torno alla superiorità, ma fa nulla. Poco più di un anno fa conoscevo una persona. Una che parla. Ma tipo parla un sacco più di quanto uno si aspetterebbe da una persona che parla un sacco. Non ci pensa eh: prende e va, poi cambia discorso, poi ricomincia, poi attacca con le implicazioni pratico-sociali della disoccupazione pressoché totale dei calzolai. E ricomincia. E’ la Santilli, per andarci giù dritti. E lei mi aprì una porta su di un mondo che non volevo riconoscere, se non nella dimensione alternativa fatta di fan di Vasco e risma simile: lei ascoltava (ascolta?) principalmente canzoni. Non dischi, canzoni. Una canzone da quel disco, una da quell’altro. La prima volta che mi sono soffermato sul suo iTunes ho visto la stanza girare: due zillioni di artisti, quasi nessun album completo. Per un feticista dell’iTunes era un dolore di difficile sopportazione. Per un maniaco dell’album integrale, un male da estirpare. Per un teorico della discografia completa come unica via verso la conoscenza, un inferno a cielo aperto. Sono talmente impucciato in questo brutto mondo che non solo i dischi vanno sentiti interi altrimenti vuol dire che l’artista è una mezza sega (non serbo amore per gente che azzecca un singolo e ciao), non solo è male fermare il disco a metà, non solo le raccolte di greatest hits sono per chi non vuole sbattersi a capire se c’è qualcosa di vero oltre la canzone da radio… ma nemmeno si mette il repeat. La canzone, se infilata in un disco completo, non si ripete. Perché deve essere preservato l’ordine e l’integrità dell’opera, va gustata la direzione che prende l’onda musicale, prima e dopo quel pezzo che tanto lo sai che nove su dieci è meglio di quello dopo. Anche se quello dopo è un bel pezzo. Ma anzi, meglio così, perché i dischi belli per sul serio sono come dune mobili che vanno addocchiate mentre si muovono e prendono nuove forme. Dall’inizio alla fine. Però, mmminchia, io ora tornerei a riascoltare per la seconda volta di fila “Monkey Gone to Heaven”. Cazzo.
Ci sono dei requisiti essenziali per prendere parte al festival karmico Insalatunes: bisogna aver portato a casa più di cinque dischi e bisogna essere perlomeno catalogati tra quelli che “non fanno sempre la stessa roba”. I Pearl Jam soddisfano senza discussione alcuna entrambi i criteri. E dopo essere balzati all’onore delle cronache di questo blog per il nuovo sottotitolo a base di cetriolo, si meritano anche la relativa insalata randomizzata.
La prima proposta è interessante e coraggiosa, niente celebri pezzi che hanno fatto la storia delle camice di flanella coi quadroni, ma “All Night”, una canzone che avrebbe voluto finire su “No Code” e invece si è dovuto accontentare di conoscere il grande pubblico attraverso “Lost Dogs” (2003). Non è la più rappresentativa dell’intera carriera dei PJ, ma perlomeno ha un bel po’ da dire sui Pearl Jam della seconda epoca, quelli alle prese con melodie meno immediate e riff di chitarra non propriamente “da stadio”. Che sia nata nei tempi “o la va o la spacca” del post-grunge (non come genere, come epoca) è lampante: non c’è nessun Jeremy a raccontare una storia, non c’è nessun inno generazionale, ma una batteria di padelle che Jack Irons percuote sistematicamente mentre Vedder tenta in tutti i modi di confondersi col tappetone sonoro. L’unico vero momento di eccitazione di McCready viene lasciato vivere sottotraccia, senza i clamori e i riflettori che avrebbe preso in altri tempi. Idealmente è tra le prime canzoni “col vocione” di Vedder, quello da ometto fatto, quello da quello che vuole diventare il nuovo saggio e intanto, per l’occasione, tira in lungo un lamento. iTunes sofisticato: per prendere parte all’insalatone PJ serve subito essere ben predisposti.
Si vede che ho finito il grosso dei lavori e ho del tempo extra? Si vede. Ritornano, per acclamazione del popolo, i vecchi post insalatari. Roba che, credo, risale all’epoca LiveJournal. O forse non è vero e non è mai risalita a nulla e non li ho mai scritti su di un blog. Comunque sono faccende nate all’epoca della redazione corridoio di NRU: prendi tutto quello che hai di un artista su iTunes, lanci la riproduzione casuale e ti segni giù le prime dieci. E’ un metodo scientifico particolarmente utile per studiare i gruppi con almeno un quattro o cinque dischi alle spalle. Per studiare l’evoluzione o la mancanza di evoluzione e scoprire, magari, punti della carriera che, insospettabilmente, si palpano l’uno con l’altro. Questo è un modo, quello migliore, invece, sarebbe di spararsi tutta la discografia di fila. Cosa che ogni tanto faccio anche, con indicibile godimento (nel week end è stata la volta dei Queens of the Stone Age con una spruzzata di Kyuss, per esempio). Ma quando non c’è tempo o si vuole buttare tutto in caciara, meglio il randomizzatore. Che per questa prima occasione tocca ai Cure.
Lo sai, sai che il mulo lo vuole
Lo vuole, e lo vuole la domenica, di domenica e la domenica
Andrà lì e se lo papperà
Un giorno se lo papperà intero
La domanda: quanto dovrò aspettare?
Sii il mulo, il mulo che devi esseri
E allora un giorno sarai sott’acqua, sotto l’acqua
Quel che devi fare è affondarlo, fai creder loro che sia troppo tardi
Per il tuo amore
Per questo, sii il mulo che devi essere