Chiuse, circumaurali, con una frequency-response da 5 a 53.000 Hz e una normal impedence di 80 Ω, le DT 770 Pro di beyerdynamic sono una figata spaziante. Cioé, non ho veramente idea di cosa diavolo sia la normal impedence, ma, per dirne una, “Vs.” (Pearl Jam) non è mai stato sentito con tutto questo fluido di amore in circolo, almeno tralasciando i concerti dal vivo. Dolci dono del Gorman, le DT 770 Pro seguono l’evoluzione delle faccende per le orecchie e la musica avviata in maniera molto soft con gli auricolari in-ear di vario retaggio acquistati negli anni 2000. Cose belle, il difetto vero è che se oggi andassi a scuola nascondere una delle due padelle nel palmo della mano sarebbe meno probabile. E quindi dovrei pupparmi Dante nelle ultime due ore del sabato, che, si sa, non esistono.
Con un titolo così le premesse sono delle peggiori. Il titolo è “Black Gives Way to Blue”, ed è quello che si porterà appresso il primo disco di inediti degli Alice in Chains da quattordici anni a questa parte, quando uscirà sul finire del prossimo settembre. Ma se il nome è tutto da rivedere, è altrettanto sugoso scoprire che settembre va via via diventando il miglior mese dell’anno in quanto a uscite discomusicali: Beastie Boys, Pearl Jam e Alice in Chains. Il dubbio o il pericolo che l’operazione dei resuscitati di Seattle sia solo una triste rincorsa ai tempi che furono è perlomeno messo in discussione dal singolo (“A Looking in View”), liberamente e amabilmente scaricabile dal sito ufficiale: non è la miglior canzone mai scritta dal gruppo, ma ha un senso e ha un bel tiro. Non si svende per sonorità differenti e riprende più o meno quanto sentito tra “Alice in Chains” (si intende il terzo disco, l’omonimo del 1995 e ultimo ufficiale) e i lavori solisti di Cantrell. Un Jerry oltretutto in grande spolvero qua, con un bel muro chitarrone che tiene in piedi senza oscurare mai del tutto il lavoro alla batteria o i colpi di basso: un pezzo di quelli oscuri e pesanti come macigni che hanno reso unico il sound degli Alice in Chains. Con in più la scelta, evidentemente iper-ponderata, di mettere sia la voce di Cantrell che quella di Duvall bene in mostra. Uno: perché il chitarrista ha già ampiamente prestato le corde vocali in passato ai pezzi del gruppo e quindi pur sempre di continuità si parla. Due: perché evidentemente è meglio non fare troppo male a chi (tutti, spero) ha ancora bene in testa il dramma di dover prevedere un album intero degli Alice in Chains senza metà gruppo, che è quanto rappresentava il mai troppo amato con la lingua Layne Staley. Però si può fare.
“Due anni e mezzo (per me), posson bastare”: “Pocket Symphony” veniva pubblicato nel marzo 2007, il nuovo “Love 2” conoscerà le gioie di iTunes il prossimo 6 ottobre. Quinto disco per i francesini, che festeggiano undici anni di carriera tutto sommato più che apprezzabile, ma al tempo stesso di quelle che partono col botto, per poi scendere. Magari scendere appena un pochino, lievemente, mantenendo una discreta media, ma sempre di scendere si tratta. Ma tempo al tempo, magari “Love 2” sarà il degno evolutore di “Moon Safari”, vai a sapere. Per intanto se ne arriva con una copertina piuttosto sfortunata, che fa il paio con quella ancora peggiore di “Junior” dei Royksopp e, volendo, con gli stessi air di “Walkie Talkie”. Per concludere in bellezza, dopo il “salto”, la solita ingenerosa valutazione dei titoli delle canzoni. Tha-dhan!
Maremma! Che poi mi dovevo anche difendere quando dicevo in giro che a casa ho “Off the Wall”, “Thriller”, “Bad” e “Dangerous”. Okei, l’ultimo tutto sommato poteva anche essere fonte di comprensibili schiaffi, ma i primi due… I primi due citati non si toccano. Schioppone a 50 anni. O forse a 712, a seconda di quello che era diventato nel suo tramutarsi in un para-umano. Peccato però. Che poi, per mettere sù il ricordo personale da “piangiamo tutti contro un muro” (ahrrr!): “Bad” è stato il mio primo CD assieme a “Introducing the Hardline According to Terence Trent D’Arby”, di Terencio, per l’appunto. Era il 1987, son cose che segnano. E poi uno nato nell’80 non può che viverla con cauto terrore un momento così: la caduta dei punti di riferimento assurdi. Achtung!
Per fare un po’ il ganassa-che-ne-sa e per non arrecare troppo fastidio al mondo che, incurante di tutto, continua a girare qua attorno, ho messo “A kind of blue” di Miles Davis. In ufficio, a volume quasi inesistente (e attraverso le miserrime “casse” dell’Eee PC, che quindi è tutto dire). Non si dovrebbe fare, vista la mancanza di porte, ma date anche le altre mancanza (in ordine: di due su quattro dell’affiatatissimo team, di reattività alla vita da parte del sottoscritto causa orari per ora infami, di reale lavoro da portare a termine) mi sono sentito quasi giustificato.
Il dramma di riuscire a riprendere i ritmi scolastici fusi con quelli delle uscite dagli uffici dei pendolari e conseguente ritorno sulla Milano-Lecco (via Carnate). La voglia di fare foto la mattiina presto andando verso la stazione e poi scoprire che… anche no. Il caffé questa mattina al tabacchino di Osnago, con vicino una simpatica vecchina che attende spazientita il gestore alla cassa (“vorrà prendere un bel cornetto e ricordare i tempi in cui i treni arrivavano in orario grazie al Grande Capo”, penso, “e invece quello là [il gestore, nda] sta al videopoker a tirar fuori le quintalate di monetine che i poveracci gli hanno lanciato dentro”, concludo). Poi invece scopro che la vecchina voleva farsi cambiare un cinquantone per discoglierlo nei suddetti videopoker. E già la poesia della mattina presto che ti mette voglia di fare viene nuclearizzata sul nascere.
Ora dovrei proprio mettere sù quel disco là del Dr. Young che non ho ancora mai messo: “On the beach”. Per vedere se è tanto facile entrare in depressione da sonno.
Giornata tematica: questa è l’altra fraccia della medaglia, ovvero il precedente post dedicato al nuovo disco dei Beastie Boys. A differenza dei tre di New York, Vedder e soci (e il loro Tenclub.com) non si sono ricordati/degnati di spedirmi aggiornamenti dedicati al nuovo lavoro, che quindi scopro con indecente ritardo. E indicibile mestizia. Verrà pubblicato il prossimo 22 settembre (rendendolo fin da ora il mese più ciuccelloso dell’anno), si chiamerà “Backspacer” e… e si chiuderà dopo soli 36 minuti di musica. L’ultimo dato è tutto fuorché ufficiale, ma così giura e spergiura una rivista teutonica che oltretutto si spinge molto più in là, fino a commentare ogni singola canzone. Di sicuro c’è il nome, ma anche l’esibizione al nuovo The Tonight Show with Conan O’Brien di “Get Some“, forse primo singolo del disco. Forse no. Poi ci sono questioncine tipo la distribuzione “a mano” negli USA, fatto salvo l’accordo con Target come unica catena autorizzata alla vendita; l’arrivo in Europa attraverso Universal e… e un’altra faccenda ridicola dopo il click.
Il tempo è una roba vergognosa: non ti rendi conto e non ne hai più. Non ti rendi conto ed escono fatti e cose sui gruppi di cui ti interessa qualcosa… e te le sei perse. Le uniche mailing list a cui ci voglio del bene sono quindi quelle dei gruppi/artisti, come quella appena catapultata dai Beastie Boys e dedicata al nuovo album. Poche righe per scoprire che: è stata aggiunta una promettente coda al titolo (“Part 1”), sarà pubblicato il prossimo 25 settembre, porterà con sé 17 tracce, due pensate per ospitare NAS e Santigold. E dopo il click, una questione davvero ridicola…
Accosciato tra il limite estremo del palco e la batteria, in completo argentato, Mike “Sono il diavolo” Patton stringe con due mani il microfono e delira le urla che chiudono “The Gente Art of Making Enemies”: “…never felt this much alive”. Ora, tutto c’è da dire del concerto dei Faith No More al PalaSharp di Milano, tranne che fosse ispirato e promosso da un qualche soffio vitale. A ben pensarci è proprio il concetto (e soprattutto la realtà) di soffio a mancare: spostato dal Regno delle Zanzare (Idroscalo) al Regno del Cemento (PalaSharp), il peraltro giovanissimo e contrissimo Rock in Idro ha vinto un tasso dell’umidità del settecento per cento, la totale mancanza di ossigeno, un calore da deportazione messicana e un odore da stalla in macerazione. C’è palesemente troppa gente dentro al palazzetto, la temperatura è ignobile anche se sono le nove e mezza (di sera) quando arriviamo e i Limp Bizkit si stanno chiedendo perché diavolo dovrebbero suonare lo stesso giorno dei Faith No More e rendere noto a tutti quanto non valgano le calze di Patton e soci. E ce n’è troppa poca fuori, di fronte al Dj maranza-molto giovane che parla un linguaggio così cool che andrebbe preso a porfidate sulle tempie, elargite in ampie porzioni cubettose. Arriva a dire che “[cantantessa X] ce la butteremmo giù tutti volentieri”. Supponiamo si riferisse alla voglia di farci all’amore, ma non ci sono certezze.
Dentro, comunque, tutto prosegue per il peggio: usciamo dopo 30 secondi, appena in tempo perché Fred Durst inizi la più vergognosa delle testimonianze che lascerà al mondo animale. La cover di “Behind Blue Eyes” degli Who. Roba che fa male ancora oggi. Ritorniamo solo quando c’è la speranza che il concerto dei Faith No More stia cominciando. E comincia. Tra due cover utili come in poche altre occasioni (la “Reunited” d’apertura che è anche l’idiota manifesto programmatico della serata e la squilibrata riedizione di “Poker Face”), c’è tempo, sudore, urla e modo di godersi praticamente tutto il meglio di un gruppo che non ne ha sbagliata una, checché ne avessero da dire i critici del post-Angel Dust. Da “The Real Thing” a “Ashes to Ashes”, da “Be Aggressive” a “From Out of Nowhere”, da “Land of Sunshine” a “Stripsearch”. I due momenti chiave rimangono però “Evidence” e “The Gentle Art of Making Enemies”. Non perché siano in assoluto i migliori pezzi del gruppo (io, di per me, continuo a rimanere fisso su “Angel Dust”), ma perché la prima viene cantata tutta in idioma italico, con risultati ridicoleggianti (in perfetto stile Patton) e Mike che alla fine si lascia andare a un: “però… sembravo Eros, cazzo!”. E la seconda è talmente aggressiva, violenta, strepitosa e lancinante che è da sempre nella mia top 3 del gruppo e quindi, alla fine, tra quella e “Land of Sunshine” ho capito che si poteva e doveva affrontare l’ignobile caldo.
Un’ora e mezza precisa, in cui il gruppo si infila in una macchina del tempo perfettamente tarata sulla prima metà degli anni ’90, con le loro vibrazioni da tastiera eighties, i riff maestosi e quella voce che può (oggi come e forse più di ieri!) spaziare da Berry White a Giorgia in pochi istanti. Una delle voci più incredibili degli ultimi vent’anni, uno dei gruppi più idioti e possenti che ci siano stati al di fuori della lunga onda del grunge (pre-grunge, a dirla tutta). Giù il cappello, su il bastone da Lord avvinazzato che accompagnava ieri Patton.
Gli anni zero, che vanno a chiudersi, hanno regalato momenti imperdibili di grande musica. Anni che né la Summer of Love né il beat anni sessanta o il carrozzone tra hard e prog dei settanta avrebbe potuto immaginare. Episodi di vera e propria infinita e irripetibile arte cristallina. Da ripercorrere coi dieci dischi, uno per anno dal 2000 al 2009, presentati in una lussuriosa serie di post. Il primo, imprevedibilmente, è questo. E parla del disco del 2000.*
Non c’è niente che sia al proprio giusto posto in “Kid A”. Arrivi a casa e scopri che non esiste alcun libretto in senso stretto del termine, prima di ritrovarlo dietro il supporto per il CD. Evidentemente non al suo posto. E una volta che il disco è nel lettore scopri con orrore che a Yorke e Greenwood è definitivamente esplosa la testa: infilati gli strumenti in una sorta di cubo di Rubik interdimensionale, hanno girato più o meno a cazzo di cane un po’ di blocchi fino a scompigliare tutte le perfette facciate. Non si capisce più nulla, magari per mesi, forse solo per qualche ora, più probabilmente per dei giorni. Quelli, fatti di ascolti ininterrotti, che servono perché un singolo suono, imprevedibilmente e senza apparente motivo, rimbalzi di spigolo sulla corteccia cerebrale. Lì rimane ficcato per circa dieci anni, aprendo la strada alla comprensione dell’amore. L’amore fatto di pareti che si sciolgono del disco che manda in frantumi i Radiohead per le radio e li innalza fino all’Olimpo degli intoccabili per i super snob e chi ha maturato una vicinanza di gusti e di sensi con il gruppo di Oxford. Sta di fatto che “OK Computer” viene preso a badilate e “The Bends” smembrato pezzo per pezzo e infilato in un congelatore. Entrambe le identità precedenti sopravviveranno, per tornare a infilare il piede nella porta degli studi di registrazioni negli episodi discografici successivi, ma nel 2000 è solo, sempre e comunque “Kid A”. Il manifesto della volontà dei Radiohead di fare esattamente sempre e solo quel che gli gira di fare. Qualcuno, ad anni di distanza, inizia a farsi puzzare un po’ il naso, sostenendo che, dopotutto, roba come questa l’avevano già fatta in tanti. E sarà anche vero. Sarà anche vero che ci sono stati pittori dell’elettronica sotto-ritmo, della deviazione strumentale e dell’esplorazione di campagne lisergiche… ma non erano i Radiohead. Non erano i Radiohead che questa insalata di beat e distorsioni tra l’allucinato, l’onirico e il disperato le sparano in faccia ai milioni di fan e ai migliaia di giornalisti che speravano di aver trovato i loro nuovi U2. Se così fosse, “Kid A” è il loro “Achtung Baby”: il suono di quattro uomini che abbattono con un accetta il loro passato. Alfieri della schitarrata un po’ pop e un po’ arterio sclerotica tra “Pablo Honey” e “OK Computer”, Yorke e Greenwood praticamente annullano i riff comunemente concepiti. Paladini della canzone da adolescente sfigato col ritornello da mugugnare di fronte alla Smemo aperta (“Creep”), il gruppo rinnega pressoché totalmente la tanto chiacchierata “forma canzone”, tanto da far gridare al miracolo quando si sente qualcosa di immediatamente comprensibile in “Optimistic”. Portavoce di alcuni strepitosi videoclip a cavallo tra “Just”, “Street Spirit [Fade Out]”, “Paranoid Android” e “No Surprises”, per “Kid A” si affidano a semplici episodi di una serie di visualizzazioni dalla pretesa artistica e quindi totalmente invendibili su MTV (non che fosse previsto alcun tentativo, comunque). Quel che rimane, consegnato agli annali, è una lunga e dilaniata disquisizione sonora sul volgere del secolo. Una nenia tribale da impasticcati tristi o fattoni con le allucinazioni. Sempre il buon Johnny (Greenwood), intervistato, dirà che per il disco tutti hanno dovuto imparare nuovamente a suonare. Per il miglior album del 2000 si può anche fare.
Gli altri classificati:
Un’ottima annata quella che ha tenuto a battesimo il 21° secolo. Nel gruppo misto che, per non far torto a nessuno, si posiziona parimenti dietro i vincitori si riconoscono chiaramente: The Smashing Pumpkins (“Machina: the machines of God/Machina II: friends and enemies of modern music”), Baustelle (“Sussidiario Illustrato della Giovinezza”), Subsonica (“Microchip Emozionale”), Coldplay (“Parachutes”), Queens of the Stone Age (“Rated R”) e The White Stripes (“De Stijl”).
* non è vero eh, gli anni 2000-2009 sono stati una mezza chiavica. Soprattutto dopo essersi sparati la prima metà degli anni ’90 (almeno, a voler fare gli stitici). Lì sì che non si scherzava.