Discussione a casaccio da ufficio dopo l’arrivo dei nuovi dati Nielsen. Vale più da morto che da vivo, per i creditori almeno. E così si chiude in bellezza la due giorni, ennesima, dedicata al povero Jackino, che ieri sera ha monopolizzato Italia 1, costringendomi ad assistere al concerto del Dangerous Tour e quindi alle mie prime due ore (meno) sulla rete giovine di Mediaset da secoli a questa parte. Si consiglia il clic sull’immagine e gli occhi strabuzzati.
Il 1996 è stato l’anno in cui è cominciato quello che poi, per larga parte, non è mai successo. Orfana e scioccata dopo quel buco in testa dell’8 aprile, la scena musicale che ha eletto quale sua capitale Seattle deve darsi una scrollata e decidere che fare della propria adolescenza e, se c’è tempo, anche della fase adulta. Bisogna cambiare, per non diventare delle macchietta da MTV, nel frattempo dimostrando a se stessi che non si è schiavi di un solo modo di grattare la chitarra. Se i Nirvana lo avevano già fatto, con il più lancinante e illuminante degli epitaffi (“In Utero”), gli altri si ritrovano proprio nel 1996 di fronte al crocevia, e i grandi nomi imboccano vie differenti rispetto a quelle battute fino a quel momento. I Pearl Jam svoltano definitivamente, dopo aver messo una freccia grossa così con la mitologia di “Vitalogy”: il risultato è quel “No Code” di cui credo di aver parlato un gozziliardo di volte sui vari blog, quindi anche basta. Ma non sono soli.
E’ morto Gianni Baget Bozzo. Cioé, Padre Gianni Baget Bozzo. Tipo due mesi fa e passa, e nessuno mi ha avvertito. Non ricordo nemmeno urla e strepitii alla TV, il che può forse essere legato al fatto che non seguo alcun telegiornale tranne l’unico davvero valido (Sky, canale 200). Però non mi sono accorto di nulla nemmeno sul Corriere. Che botta. Cioé, ho anche visto che sul relativo articolo ancora presente su Corriere.it ci sono commenti che illustrano l’uomo come uno dei più grandi pensatori-giornalisti vissuti di recente. Il che è indubbiamente interessante. Poi ho pensato che forse era meglio mettere le cuffie e quindi son qua con quel “Down on the Upside” che a tutti piace odiare, ma che alla fine ce la fa anche. Assolutamente non come i vari “Badmotorfinger” e amici, ma ce la fa.
Il fatto che sia morto, comunque, impedirà con buone probabilità a Giannino di passare alla cassa elettronica del negozio virtualissimo e virtuoso dei Radiohead, che da poco ospita anche il download di alcune canzoni/dischi. Tra cui spicca la seconda metà del mai troppo amato “In Rainbows”. Ora, si possono perdere ore a chiedersi perché mai nei negozi sia arrivata l’edizione da un solo disco, dato che l’opera è concettualmente e slurpamente al completo solo se si chiude all’ultimo secondo di “4 Minute Warning”. Ma vabbè. Un’ingiustizia cosmica a cui gli stessi di Oxford provano a porre rimedio mettendo finalmente a disposizione di un certo pubblico (non quello da negozio quindi) le canzoni. Tralasciamo il fatto che, al 99,99%, quello stesso pubblico se l’era già procurato per vie traverse o con il Super Box Deluxe Edition Yeah Yo!, come aveva fatto il sottoscritto. Però… però si acquista in blocco a sei sterline. Che sono poche tutto sommato, meno dei 9 e rotti Euro di iTunes. Però il formato è solo .mp3 e mi pare di capire (senza procedere all’acquisto imprevisto) che non ci siano opzioni relative alla qualità degli stessi, presumibilmente fissata a un 160vbr come fu ai tempi “In Rainbows”. Ma… ma! Cadano gli dei! Qui si paga! Ai tempi s’era tanto discusso di questo “paga quanto vuoi, anche nulla”, tutto quel chiacchiericcio, lo scossone al mondo dell’industria discografica… Ecco, sarebbe bello parlarne, ma poi mi viene fuori una faccenda troppo lunga, quindi rimando a un futuro post. Però insomma, se volete finalmente spupazzarvi la seconda parte del più bel disco degli anni 2000 dei Radiohead, ora potevate farlo. E “Kid A”?
Intro: per la spiegazione del perché e del percome della peraltro deliziosa collana “Zeros”, si veda questo post.
Gli anni del liceo (o della scuola superiore, in senso più largo), sono importanti. Quando non cerchi di prendere una strada e calarti dentro un costume per gli altri, lo fai almeno per te stesso. Insomma: si prendono delle decisioni, si fanno delle scelte, bisognavano. E quindi se decidi di essere rock, molto rock, come l’atmosfera dell’epoca permetteva ancora, oltretutto, allora poi è un po’ casino far finta di accorgersi che ci sia anche altro. Fortunatamente per me, non ho mai avuto sufficiente stima delle mie convinzioni per non ritenerle ampiamente modificabili cinque minuti dopo la formulazione. Insomma: va bene la nascita musicale a botte di Nirvana, Pearl Jam, Smashing Pumpkins, Cure e quant’altro. Ma quella roba lì elettronica ce la fa, ce la fa per davvero.
Edit: grande novità per il blog più in voga tra le 12.54 e le 13.00 di sabato 11 luglio 2009: la musica! E difatti questo post viene sbalzato bello in alto e dà ora la possibilità di ascoltarsi la canzone di cui si ciancia qua sotto.
Come da previsione, gli Air hanno spedito gratuitamente il loro nuovo singolo “Do the Joy”, primo alfiere del futuro “Love 2”. E se il ruolo di un singolo può anche essere quello di simboleggiare il disco stesso, allora è perlomeno interlocutorio. O, forse (si spera), è proprio il portavoce perfetto dell’album che rischia di essere il secondo “10.000 Hz Legend”. Quelli di “Do the Joy” sono tre minuti di passaggio, quelli che proprio non si confanno a un primo singolo e di certo non sono pensati per vincere spazio nelle playlist delle radio. Che tanto non contano più nulla e quindi va anche bene così. Con l’intro in fade in addirittura affidato a una chitarra elettrica, che rimarrà per tutti e tre i minuti a stendere i binari del pezzo, gli Air si affidano completamente a un’atmosfera ricca: ricca di sintetizzatori e di un vociare in secondo piano, abbandonando la più classica delle sequele strofa-ritornello-strofa. Insomma, in un disco degli Air “Do the Joy” sarebbe la traccia che si appoggia placida tra due pezzi più corposi, per prendere fiato. A meno che “Love 2” non sia un album bello organico, un insalatone senza interruzioni apparenti e/o un bel disco tematico tutto fuso assieme, come per lunghi tratti è proprio “10.000 Hz Legend”. Sì sì ok, siamo nel reame delle supposizioni a cazzo, ma si può fare: dopo due episodi basati su canzoni più strutturate, di semplice lettura (“Talkie Walkie” e “Pocket Symphony”), “Love 2” potrebbe essere un bel blocco granitico di polvere stellare com’era tipico dei due francesotti tra la fine dei ’90 e i primi anni zero.
Capita così di rado di trovarsi di fronte a una bella copertina per un disco. Non solo a una bella copertina, ma pure a una bella copertina acida, tutta intossicata e fatta come una pigna. Quando capita è meglio salvarla sul blog: quella qua sopra è l’illustrazione che accompagnerà nei negozi “Run Rabbit Run”, una sorta di remix e rielaborazioni delle canzoni di “Enjoy your Rabbit”, composto, musicato e intepretato da Sufjan Stevens nel 2001. Mai sentito. Cioé, mai sentito il disco, lui sì. Anche perché lo sconfondo volentieri con il nome beduino (forza, fuori gli insulti sull’ignoranza e la mancanza di rispetto religioso-razziale) di Cat Stevens.
Degna di altri grattini la storiella messa in piedi dalla responsabile della copertina stessa e riportata dall’ogni-tanto-valido Stereogum:
Sufjan suggested I do artwork for this new album that he’d started work on Run, Rabbit, Run – drawings that, like the re-arranged music, would flower from the outlines and ideas suggested by the originals.
Now, Sufjan is a very formal person, so we set a date for the official kick-off meeting. At the appointed hour, I heard a light rapping on my door. I went to answer it, wondering why so quiet? Why no doorbell? Sufjan stood there, and he said to me in his quietest voice, ‘There’s a rabbit in your yard,’ like it’s some set up, like this is some joke.
But there it is, this beautiful black and white bunny, twitching and lost and afraid and unsure exactly what was going on and how he ended up under this big bush on a lawn in this big city. We scrambled to catch him, and once we did, and we put it in a box out in our backyard.
Now Sufjan had brought this ornate list of what needs to be done in the drawings and we tried our best to get through it: ‘Of course, a tiger and a tortoise and a butterfly.’ ‘Yes, sure the snake could use a scorpion and some pomegranate.’ ‘Definitely water dragons would enjoy grapes.’
It was hard to do this with a straight face, and all we could think of is this rabbit in the back of the house, and all of a sudden for no particular reason we found ourselves calling Shara to tell her.
‘Did you guys know I’d been keeping rabbits lately,’ she said. ‘Thank you for finding my new rabbit.’
A un paio di mesi (meno) dall’uscita di Guitar Hero 5 e a pochi dall’autunno di Band Hero, non ho ancora lontanamente capito il perché di tante scelte di Activision. Band Hero sarebbe, nominalmente parlando, “il” gioco della band musicale. In un mondo migliore Band Hero sarebbe stato il titolo di Guitar Hero World Tour e dell’imminente Guitar Hero 5. Invece, terrorizzati (anche giustamente), dalla minaccia di risultare sconosciuto all’omino che gira nello scaffale cercando il gioco (“Band Hero? Ma io volevo Guitar Hero con la batteria, sadface 🙁 “), i ragazzi di Bobbyno Kotic hanno fatto diversamente. Marketto-raspe a parte, la triste realtà è che Band Hero sarà una roba dedicata ad Hanna Montana e ai Jonas Brothers.
Nulla che non permetta a questo blog scintillante e macina-record di presentare le prime ventiquattro delle oltre ottantacinque canzoni che saranno incluse nel disco di Guitar Hero 5 (dopo il clic qua sotto, con mini commenti).
San Siro dà, San Siro toglie: e alla fine rimango con il dubbio di non aver capito come posizionare il concerto, prima delle due serate che gli U2 dedicano a Milano all’interno del loro 360° Tour. Durante i primi venti minuti è tutto un guardare fisso, interrogativo, con occhiate stupite a mio fratello e alla Signorina Lucia… c’è qualcosa che non va. A differenza dei Depeche Mode, questa volta siamo in alto: niente prato, terzo anello. Non per scelta, ma per obbligo (Ticketone, sto guardando te). Il clima è libero, felice e appassionato. Scomparsi i poveracci che hanno riempito il finto parterre di Gahan e soci solo per mirare a un po’ di materia prima facile, magari lanciando birre a cazzo un po’ ovunque, qua ci si deve sorbire al massimo una confraternita teutonica dedita alla pulizia-con-panno-igienizzato delle seggioline. Non capiamo, ma ci adeguiamo.
Lo shock, quello accennato prima, però rimane: “ehi, ma si sente da schifo!”. Ma tipo da schifo. Ma tipo troppo da schifo e in maniera troppo improbabile per essere un semplice problema strutturale dello stadio: la voce arriva ora nitida, ora velata, a tratti possente, altre volte ovattata. La stessa sensazione di quando un suono una voce vengono momentaneamente nascosti da un ostacolo, una finestra, una persona che passa. Non può essere. Misteriosamente, dopo i primi cinque o sei pezzi, la situazione migliora. E’ anche il tempo che gli U2 si sono dedicati per voler bene allo splendido “No Line On the Horizon”, che tiene a battesimo il concerto con le prime quattro canzoni.
I dati sono fuori. La settimana che si è chiusa domenica scorsa è stata scandita da Nielsen Soundscan che ha decretato l’unico verdetto decretabile: il dominio non solo incontrastato, ma puranco da record di Michael Jackson nella categoria “Billboard’s Top Pop Catalog Albums”. Nove posizioni su dieci, otto a nome di Jackson, una per l’allegra combriccola dei Jackson Five. La domanda retorica più retorica del mondo della musica, che si era posto anche Zio Lampadina Corgan (“If I were dead/would my records sell?” – “Heavy Metal Machine”, 2000), ha avuto la solita risposta.