Proprio così, fermate le rotative: dalle nove alle undici il mondo non è imploso. Certo, ogni buon pessimista vi dirà che è peggiorato di un’ennesima tacca infinitesimale, ma qui a Milano c’è il sole. A gennaio febbraio. Il sole bello e caldeggiante. C’è addirittura il cielo azzurro che ci crede, potrebbe essere la scusa per ricordare a Surgo che anche qua succede, vedi? Ma lo dico con la morte nel cuore e un lutto lungo come il cappotto morbidone che mi porto dietro (perché comunque la mattina c’era un freddo da tagliare la faccia alle blatte): che bella ‘sta cosa del sole e anche un po’ ammazzati Generale Inverno freddo.
Nel frattempo sono successe poche cose, ma tutte estremamente significative. Non solo Menebach ha partorito la seconda puntata di Effetto Massa (a me mi piace), ma qualcuno ha anche annunciato un gioco dedicato a “Days of Thunder” (sì, quel “Days of Thunder”), qualcun altro ha scritto una roba sulle MILF e il Wii e io sto aggiornando Metropoli d’Asia. Che magari non sapete cos’è, ma che magari può anche interessare. In sottofondo la musica è diventata quella della Dave Matthews Band, per prepararsi al 22.
La noia del parcheggio, però, rimane immutata: abbiamo perso qualche macchina, ma se ne sono aggiunte di nuove e simpaticissime. Ce n’è addirittura una a gasolio! Fa delle battute che… non ce la faccio, è uno spiscio. Il sole è alto, aggiornamento SocialNoia alle 13!
Categoria: Giornate
No che non sono le nove, ma quando ho scattato la foto erano le nove e questo è un esperimento di SocialNoia. Dalla stessa posizione, differenti scatti per imbozzolare in una vagonata di pixel tutta la pochezza di un parcheggio-con-vista-periferia-vecchia. Di bello ci sono alcuni riflessi assolutamente gratuiti e generati da non si sa bene cosa o perché o percome. Probabile che sia un problema di particelle nell’aria, blocco del traffico, la Moratti, sua sorella e via andando.
Oggi tregua con Trenitalia, dopo che ieri ho provato di nuovo a partecipare alla Grande Lotteria. Il mio biglietto (quello che prevedeva il passaggio del treno alle 07.00) non era quello giusto e quindi ho dovuto ripiegare sulla Zavemobile 2.0. Che è sempre bello, ma che è anche sempre costoso. Oggi no, oggi amicizia: freddo che le vecchiette pazze della mattina manco erano in giro (non vive, perlomeno). Freddo che ho messo le calze colorate coi gommini sotto, in vera pura lana merinos. Me le ha vendute Mastrota, esatto.
Supergrass in treno, abbiocco in treno, niente Space Invaders Extreme 2, né libri. Arrivo traumatico, venti minuti di crudele spettacolino della commessa di Feltrinelli, vecchia conoscenza (soprattutto vecchia, poi anche conoscenza), che sparla malamente dei clienti. Quindi trasbordo fino a Famagosta, con tizia dallo stivale lungo che mi fissa insistentemente. I casi sono due: o sono bello in modo urtante, o Zero mi ha di nuovo graffiato la fronte nella notte. Lo stronzo non mangerà questa sera.
Quindi caffé americano (si fa per dire) da asporto, autobus 320, sobbalzi da pilota cane e post delle nove. Noioso? Eh grazie tante, che ho scritto io all’inizio?
Qualcuno ha un contratto a progetto e dei soldi ogni mese, evviva la vita! No, non sei tu Birbaz, ma vogliamo bene anche a te qui, dai.
Il problema di essere viziati è che prima o poi, di solito, finisce. Prendete il sottoscritto: una vita fatta di alzate decenti, ma di una decenza vinta sul campo. Il tempo calcolato per svegliarsi all’ultimo secondo utile e raggiungere la scuola (da fuori Milano fino in zona Stazione Centrale per otto anni) era frutto di prove, errori, tentativi, speranze e infine abilità. Negli anni teoricamente universitari (e mai tali) si è vissuto di notte e dormito fino a mezzogiorno. Mica per le discoteche e le pasticche, ma per collaborare con 715 riviste. E delle tenebre i padroni erano Mirc e Winamp, poi sonno placido dalle 04am in avanti. Infine la vita da assunto: e qui arriva il vizio.
Pur rimanendo nel rispettabile, l’orario era sufficientemente elastico da permettere di impostare la sveglia fino alle 9 e qualcosa, con treno alle nove e mezza. Oppure alle nove e mezza, quando sopravvivevo direttamente a Milano. Per chiudere, la fase “automunito”: si usciva di casa sempre tra le nove e le nove e mezza. Insomma, mattine tutto sommato rilassanti e nessuna reale alzataccia.
Ma dopo che il Diavolo c’ha messo il coda e il mondo è diventato più brutto, va anche benissimo doversi tirar su alle sei e mezza per raggiungere l’altra parte del mondo. Almeno fino a quando non fai un record difficile da battere. Oggi, sono, arrivato, alle, dieci. In auto.
Particolare da non sottovalutare: alle sette ero alla stazione del treno, ovviamente a piedi.
E’ una citazione, quella in apertura. Eventualmente qualcuno ne rivendicherà la paternità, ma per intanto… siamo ufficialmente al centesimo numero di NRU, per gli infedeli sarebbe Nintendo la Rivista Ufficiale. Per le mie e-mail sarebbe la Ringhiata, la Religione, la Raschiata, la Ramazza, la Rampetta e un’altra mezza valanga di parole che cominciano con la erre. Infilavo ‘ste idiozie nelle comunicazioni ai collaboratori, quelle di inizio lavorazione in cui “tu fai questo, se arriva / tu fai quell’altro, se funziona / tu fai quello che quell’altro proprio ha schifo a fare” e via di questo passo.
Santissima polenta quanto mi manca fare una rivista di giochini. E pure farla con tutti gli amichetti, che va bene che i social instant cosi messanger ti tengono più vicino, però non basta. Neanche l’omofobia riesce a tenermi lontano dal pensiero. Comunque si diceva: cento numeri. Qualcosa in meno di cento mesi (novantadue?), a ben vedere una valanga di roba e di tempo. E di giochi e di cose da raccontare e lagrime con la “g” da versare di nuovo. Ma per quello c’è la collana, che magari torna anche presto, forse che si, forse che no.
Però un bacio con la lingua tutta appallottolata a Ughetto e Babich, a Roberto e Davide, al Zanna e al Frarru e a tutti gli altri. Ad Anna ed Elisa no, che non si può dire, altrimenti mi ritrovo con un labrador nero cocainomane di 35 chili nell’appartamento.
Avrei voluto esserci io assieme a tutti quelli lì sopra, per i cento numeri. Se il mondo fosse un posto anche solo lontanamente meno vergognoso. Così invece no, non ci sarei voluto essere e difatti non ci sono. Però, per dirne una, lo speciale all’interno del numero dedicato alla storia della rivista è proprio ben fatto. Gli articoli di Barbichino sono sempre delle termocoperte di amore e il tocco romanazzo di Boba ci piace.
Sarebbe veramente troppo una roba spaziante riuscire a essere sinceramente entusiasti del traguardo raggiunto. Ma invece anche no. Tante cose sono cambiate dal 2002 a oggi. Tipo che prima la Juventus vinceva (il 5 maggio cazzo!) e oggi prende le sveglie. Tipo che prima era l’inizio e ora è già finito tutto da un pezzo. Tipo che sto ascoltando Tracy Chapman e so che non avrei dovuto farlo che è subito malinconia-canaglia-fine-anni ’80-infanzia-felice.
Auguri amici, auguri lettori. Muori SS.
L’evoluzione della tazza di zucchero
Quattro appartamenti per quattro fasi, ed è sempre finita bene. Quasi sempre perlomeno, qualche minimo incidente c’è stato e ci sarà. Ma generalmente il rapporto col vicinato non è mai stato quel che piace descrivere con toni apocalittici a tanti sceneggiatori di serie televisive. A Vimodrone si era all’ultimo piano e la generosa metratura aiutava a rendere più sopportabili le scelte rock’n rock adolescenziali. A Merate era stata organizzata la ZaveCaverna, un seminterrato con delle casse per la musica, televisore per i videogiochi e computer… quindi impossibile litigare con chicchessia, tranne forse le talpe. In Viale Fulvio Testi c’è stato qualcosa, soprattutto da parte loro verso parte mia, quando dimenticavo per un istante che i Queens of the Stone Age alle due e mezza di notte non sono apprezzati da tutti tutti, giustamente. Loro, per contro, tendevano a litigare ogni domenica mattina (ho sempre supposto si trattasse di una famiglia numerosa di panettieri calabri). Ma si è sempre evitato lo scontro, quindi è andata bene così. Infine, Osnago, oggi. E qui, qualcosa, si è inceppato. Appena un pochino, ma il meccanismo non è più perfettamente oliato.
Ogni volta, ho sempre in mente te: a ogni reboot, reset, format, sudden death, accidente stagionale e coma doloso che piglia un mio computer o un terminale informatico che comunque utilizzo, ci sono dei passaggi obbligatori da seguire. Un iter preciso, o quasi preciso, che è poi l’elenco di programmi da scaricare e installare al volo al primo rilancio post mortem. Ed è da anni che l’iconcina rossa sfumé di Last.FM è lì, sempre lì, lì nel mezzo. Come un mediano? No, come Ancelotti quando seguiva Sacchi in nazionale: si piazzava sulla tribuna, panino alla coppa in mano, e segnava tutto quanto succedeva sul suo bel taccuino unto ma saporito. Last.FM segna tutto, volendo. Almeno in teoria.
Sempre in linea teorica è l’amore della precisione per amor della stessa. E per chi ascolta musica pressoché tutto il giorno e ha delle deviazioni mentali da rastrellamento di dati, è ovvio quanto sia eccitante la questione. Sapere quanto hai sentito chi, cosa hai sentito di più, più spesso, in questa settimana, in quella prima, nel mese prima, l’intero anno. Però ci sono un paio di buchi significativi, che fanno tanto male.
Viva l’Italia, altro che quel pallume patinato degli Stati Uniti. Altro che la Sunset Boulevard e la freeway. Altro che Los Angeles… Rozzangeles! Come amano chiamarla da queste parti, Rozzano è la cittadella sperduta nel nebuloso nulla che regala, alla sua altezza, uno scorcio di vero T.J. Hooker, con tanti saluti a Poncharello e compagni. Altro che provincia americana, è qua che si corre e si infrange la legge senza paura di capottarsi al volo ed esplodere prima di toccare nuovamente terra.
Perché questa mattina, proprio una manciata di minuti addietro, ho assistito al mio primo inseguimento. Nessuno schermo al plasma, ma il parabrezza della ZaveMobile 2.0 e “My Elastic Eye” dei Chemical Brothers dalle sei casse, mentre una Punto grigia iniziava a destreggiarsi tra il traffico-a-30km-all’ora, inseguita agile da una gazzella. Ovviamente altrettanto agile. Ed è per sua fortuna che quando è entrata dalla corsia di emergenza, tagliandomi la strada da destra, non mi abbia toccato e palpeggiato il nero manto da panterona della 2.0. Ora ne avrebbe due alle calcagna. Ma corri Forrest, corri! Regalaci un sogno lungo come gli anni ’80!
Quando fuori c’è solo l’essenza più caricaturale di Milano (la nebbia, tanta nebbia, una roba di nebbia che arriva Al Gore e spiega che c’entra il riscaldamento globalizzato, anche se io ho quello autonomo che lo accendo quando voglio). Comunque: quando fuori c’è solo nebbia i casi sono due. O siamo negli anni ottanta e sono tornato da qualche ora dalla seconda elementare oppure è un bell’inizio novembre, domenica, sto cuocendo le patate dolci e sono a Vimodrone a correggere la recensione di Parasite Eve di mio fratello. Invece, fanculo, è il 2010, sono a Milanofiori ma almeno mi è arrivato il fight pad Mad Catz per Street Fighter IV: prendi questa, dannato postino brianzolo. Che Alex Drastico ti insegni la via.
Quel che non è cambiato da quella domenica di patate dolci e diciotto anni è il primo disco dei Subsonica. Che se solo fossero sbucati fuori proprio alla grande un par d’anni prima, andare ai concerti avrebbe avuto tutto un altro senso. Caso mai non ne foste strambamente al corrente, i concerti post “Microchip Emozionale” erano tra i ritrovi più letalmente ricolmi di materia prima giovanotta che si potessero immaginare. Una valanga così di quindicenni/sedicenni affogate nel desiderio di vedere cosa c’è sotto il cappellino di Samuel. Indovina un po’? C’era l’avanzare del crollo del cuoio capelluto, ma a loro la cosa non interessava. E io ero ampiamente troppo avanti per ridurmi a provarci con le regazzine, oltretutto già impegnato e non proprio incuriosito dal fatto illegalità. Altri concerti in cui sperimentare un bagno di essenza femminile potenzialmente decerebrata: i concerti degli Smashing Pumpkins (molto, molto più di quanto si possa intuire) e quelli degli Incubus, per ovvi motivi di debordante e debosciata figaggine con tendenze allo spogliarello.
Oppure è un po’ prima, c’è sempre la nebbia e c’è anche quella roba de “La Storia Infinita”. Da cui la nebbia, il nulla per l’appunto. “La Storia Infinita”, quello che l’avvocato Lionel Hutz inquadra efficacemente come “il più eclatante caso di pubblicità ingannevole di sempre”. Che, dico, se avessi avuto da piccolo la pulizia mentale e la prontezza per accorgermi che il film era tedesco, non lo avressi mai guardato. E non avrebbi mai letto il libro, nemmeno quell’altro di Ende, quella roba di “Momo”. Ne “La Storia Infinita” c’è il FortunaDrago e in questo caso manco puoi stare lì a dire “eh vabbé, cani italiani, probabilmente in origine era troppo meglio”. No, in origine era tedesco, non diciamo minchionate.
Bene, il grande Nulla si accompagna splendidamente al primo disco dei Subsonica, quello ancora perfettamente funky, molto reggae-reggibile, speziatamente rockino. Ci piace tanto quel disco, anche se non quanto “Microchip Emozionale” probabilmente. Però c’è “Preso Blu” e “Momenti di Noia” e “Nicotina”, che col FortunaDrago con la noia da nebbia ci stanno una crema. Quindi, a grande richiesta: la Top Five delle canzoni per la Nebbia.
TOP 5 CANZONI DELLA NEBBIA
(Achtung: in realtà l’ordine è a caso)
- Preso Blu (Subsonica, Subsonica – 1997)
- Sifting (Nirvana, Bleach – 1989)
- Whale & Wasp (Alice in Chains, Jar of Flies – 1994)
- A Strange Day (The Cure, Pornography – 1982)
- Annie-Dog (The Smashing Pumpkins, Adore – 1998)