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DMB: live in una scatoletta

Dave Matthews Band

Toglile il panorama mozzafiato della Gorge (Washington), levale il Central Park o il Golden Gate Park (New York e San Francisco), trascinala via dal Red Rocks Park in Colorado e cosa ti rimarrà della Dave Matthews Band? Un’ottima live band, un po’ meno viva. Perché a Dave Matthews e ai suoi la cartolina “Greetings from…” calza semplice e naturale, con i suoi dovuti colori kitsch, tradizionali come il rock venato di country del seghino sudafricano e del suo esercito. Come l’aquila dell’immaginario statunitense, anche alla band del sud degli USA lo spazio serve per prendere fiato e incendiare l’aria.
Ai sette (!) sul palco, il vecchio Palatrussardi sarà parso una balera di paese, ma non è bastato per togliere energia alle due ore e mezza di concerto, aperte con “Proudest Monkey”: perché tanto non c’è vecchio e non c’è nuovo se sei in perenne tour, se sei uno di quei gruppi che vive masticando biglietti e contatto visivo con le squinzie in prima fila o gli avvocati in ultima (ieri erano circa a metà, verso sinistra, di fronte a noi – impassibili).

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Barefoot in the Parklife

Blure @ Hyde Park (London) - 02/07/09
Blure @ Hyde Park (London) - 02/07/09

Agli inglesi piace incredibilmente essere inglesi. Purtroppo per gli altri che non lo sono, come quella famosa battuta per cui quando c’è nebbia il continente è isolato. Di inglesi inglesi come i Blur non ce ne sono stati molti negli ultimi vent’anni di musica. Ci sono e ci sono stati gli Oasis, ovvio, ma è un’Inghilterra diversa quella di Manchester. Quando Damon Albarn allarga le braccia e si regala un sorriso a trentuno denti, socchiudendo gli occhi di fronte al sole che cala pacioso su Hyde Park, capisci che ha fatto il giro e scoperto tutti i modi di essere britannico di Londra. Il sorriso è ampio e sincero, il cuore ricolmo di autentica estasi perché sta facendo quello che voleva fare, con i ragazzi con cui voleva farlo, di fronte al suo pubblico, cinque minuti più in là di dove abitava prima di essere il belloccio dallo sguardo furbo che ha preso in mano i resti degli Stone Roses e li ha utilizzati a suo piacimento per dieci anni. Prima era il giovane posato ma rock, con le magliette Fred Perry sempre in ordine, ma l’occhio astuto: bello, fighetto e anni ’90. Oggi ha tramutato uno di quei due denti del radioso sorriso in un inno alla natura zingara, dipingendolo d’oro. Ha preso anche qualche chilo e quindi si è tramutato felicemente in un inglesotto di mezza età (ma ancora nella metà “buona”) con qualche rotondità e meno classe, tendenzialmente ottimo per ubriacarsi un venerdì sera a caso in un pub della Notthing Hill che frequenta senza remore. Ma è sempre inglese al 100%, pur adattandosi all’età, come è totally british il concerto che raduna circa 60.000 persone ad Hyde Park la sera dello scorso giovedì: i Blur sono tornati a suonare assieme dopo circa nove anni. Dove per “assieme” si intende “ora con più Graham Coxon”, anche lui non esattamente pulitino e carino come ai tempi d’oro, ma pronto a una seconda metà di vita da chitarrista e autore ricercato e capace. Ha dalla sua un po’ del fascino alla Eric Clapton, meno disegnato e più schizzato con un pennino rispetto ai tempi di “Parklife”.

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The Gentle Art of Making un concerto

Faith No More (poco prima di Milano)
Faith No More (poco prima di Milano)

Accosciato tra il limite estremo del palco e la batteria, in completo argentato, Mike “Sono il diavolo” Patton stringe con due mani il microfono e delira le urla che chiudono “The Gente Art of Making Enemies”: “…never felt this much alive”. Ora, tutto c’è da dire del concerto dei Faith No More al PalaSharp di Milano, tranne che fosse ispirato e promosso da un qualche soffio vitale. A ben pensarci è proprio il concetto (e soprattutto la realtà) di soffio a mancare: spostato dal Regno delle Zanzare (Idroscalo) al Regno del Cemento (PalaSharp), il peraltro giovanissimo e contrissimo Rock in Idro ha vinto un tasso dell’umidità del settecento per cento, la totale mancanza di ossigeno, un calore da deportazione messicana e un odore da stalla in macerazione. C’è palesemente troppa gente dentro al palazzetto, la temperatura è ignobile anche se sono le nove e mezza (di sera) quando arriviamo e i Limp Bizkit si stanno chiedendo perché diavolo dovrebbero suonare lo stesso giorno dei Faith No More e rendere noto a tutti quanto non valgano le calze di Patton e soci. E ce n’è troppa poca fuori, di fronte al Dj maranza-molto giovane che parla un linguaggio così cool che andrebbe preso a porfidate sulle tempie, elargite in ampie porzioni cubettose. Arriva a dire che “[cantantessa X] ce la butteremmo giù tutti volentieri”. Supponiamo si riferisse alla voglia di farci all’amore, ma non ci sono certezze.
Dentro, comunque, tutto prosegue per il peggio: usciamo dopo 30 secondi, appena in tempo perché Fred Durst inizi la più vergognosa delle testimonianze che lascerà al mondo animale. La cover di “Behind Blue Eyes” degli Who. Roba che fa male ancora oggi. Ritorniamo solo quando c’è la speranza che il concerto dei Faith No More stia cominciando. E comincia. Tra due cover utili come in poche altre occasioni (la “Reunited” d’apertura che è anche l’idiota manifesto programmatico della serata e la squilibrata riedizione di “Poker Face”), c’è tempo, sudore, urla e modo di godersi praticamente tutto il meglio di un gruppo che non ne ha sbagliata una, checché ne avessero da dire i critici del post-Angel Dust. Da “The Real Thing” a “Ashes to Ashes”, da “Be Aggressive” a “From Out of Nowhere”, da “Land of Sunshine” a “Stripsearch”. I due momenti chiave rimangono però “Evidence” e “The Gentle Art of Making Enemies”. Non perché siano in assoluto i migliori pezzi del gruppo (io, di per me, continuo a rimanere fisso su “Angel Dust”), ma perché la prima viene cantata tutta in idioma italico, con risultati ridicoleggianti (in perfetto stile Patton) e Mike che alla fine si lascia andare a un: “però… sembravo Eros, cazzo!”. E la seconda è talmente aggressiva, violenta, strepitosa e lancinante che è da sempre nella mia top 3 del gruppo e quindi, alla fine, tra quella e “Land of Sunshine” ho capito che si poteva e doveva affrontare l’ignobile caldo.
Un’ora e mezza precisa, in cui il gruppo si infila in una macchina del tempo perfettamente tarata sulla prima metà degli anni ’90, con le loro vibrazioni da tastiera eighties, i riff maestosi e quella voce che può (oggi come e forse più di ieri!) spaziare da Berry White a Giorgia in pochi istanti. Una delle voci più incredibili degli ultimi vent’anni, uno dei gruppi più idioti e possenti che ci siano stati al di fuori della lunga onda del grunge (pre-grunge, a dirla tutta). Giù il cappello, su il bastone da Lord avvinazzato che accompagnava ieri Patton.

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