Avevo promesso a me stesso che, al terzo sollecito, avrei placidamente saldato il canone Rai. No, in realtà avevo detto “al secondo sollecito”, ma poi mi sono fatto prendere la mano. Sull’assurdità di una simile struttura televisiva e di relativa tassazione avranno speso parole pesanti, importanti e soprattutto informate una quantità di persone più alto locate. Con buone ragione. Io sottolineo solo che non ho scelto di usufruire del servizio Rai, che non concepisco una presenza di interruzioni pubblicitarie solo marginalmente inferiore a quella delle cosiddette televisioni commerciali (a fronte però di circa 100 Euro di abbonamento) e quindi non vedo perché mai si debba mettere in piedi la pantomima del canone, soprattutto se spacciato come abbonamento, per l’appunto. E’ una tassa. Comunque sia, non è questo l’argomento, questo è lo spunto.
L’argomento sono le pubblicità nei videogiochi, che personalmente spero diventino la normalità nel prossimo futuro, a patto che… A patto che il tutto avvenga con determinati criteri, tutti molto semplici e particolarmente naif. Primo: concettualmente l’assenza di pubblicità è il sintomo dell’arretratezza culturale (non ci metto le virgolette, ma ci andrebbero) dei videogiochi. Secondo: le pubblicità, nell’ambito, potrebbero e auspicabilmente dovrebbero seguire due modelli. Il posizionamento di cartelli pubblicitari “off-game” e l’abbraccio totale e intelligente del product placement. Parto da quest’ultimo: anche e soprattutto nel mondo della televisione, più facilmente nei film per la TV o nelle serie (i telefilm, insomma), piazzare strategicamente e con un minimo di classe e intelligenza (e opportunità, e senso estetico, e abilità registiche e di sceneggiatura, etc. etc.) dei prodotti che nel mondo reale esistono davvero, non fa altro che creare un collegamento.
Un collegamento con la vita di tutti i giorni, un collegamento e un rimando alle esperienze quotidiane, che può contribuire ad approfondire la credibilità (ovvio, all’interno della finzione) della vicenda. Se il Dr. House gioca con un Game Boy Advance, inquadrato appena di sfuggita, tanto che devi inclinare la testa sperando di poter avere una conferma (che non può arrivare, è pur sempre uno schermo piatto) di quanto supponi di aver visto… allora va bene. Funziona. Mi strappa un sorriso e non ci trovo davvero nulla di male. Lo faccio quando intravedo qualcuno in metropolitana intento a fissare uno schermino, e allora cerco di capire che console (o che altro) abbia in mano e a cosa stia giocando.
Se il Dr. House prende in mano il suo iPod Shuffle, si allaccia le scarpe e va a correre, è meglio. Perché è una questione di banalità e sincerità: lo stimolo a non voler regalare visibilità gratuita a chicchessia spinge più verosimilmente a costruire alambiccosi castelli in aria. Ovvero cazzate. Quindi va bene, qualcuno paga e il suo prodotto è infilato tra le immagini delle abitudini di un personaggio.
Tutta la differenza del mondo sta nel tasso di vergogna che ti porti appresso. “Notte prima degli esami – oggi” e “L’allenatore nel pallone 2” sono esempi lampanti: due film (sì sì, “film”, l’ho scritto) costruiti prima attorno al product placement (a riprova del fatto è sufficiente dare una bella scorsa ai “Credits”, che per prima cosa illustrano i loghi delle settecento marche presenti, prima ancora degli attori), che a tutto il resto. Lì la telecamera si sofferma appositamente su qualsiasi aggeggio sia stato possibile svendere, come posizionamento. All’opposto le pubblicità Vodafone (o mille altre) con iMac belli in vista ma del nastro adesivo sulla sagoma della mela perché qualcosa non è andato a buon fine.
Nei videogiochi. Nei videogiochi il product placement è tendenzialmente figo. Esisteva fin dai tempi di WipEout 2097 (no, Biker Mice from Mars non lo cito), con le insegne luminose della Red Bull sparse per una qualsiasi Neo-Tokyo. Tutto bellissimo. Vendere spazi simili all’interno di WipEout è (o dovrebbe essere, per quanto ho sempre potuto immaginare) pratica adatta a un bambino in età pre-scolare. Perché, come molti altri suoi simili oltretutto, WipEout vive in un mondo che affonda le radici nella visione à la “Blade Runner” del futuro (o del presente), quindi con un’iperattività verso la cultura dello spottone sul grattacielo in mezzo alla pioggia. Splendido no? Sì. Come WipEout, molti altri potrebbero godere degli stessi favori. Giochi che, con una certa attenzione e un minimo di stile&gusto, potrebbero presentare ambienti più interessanti e credibili. Ambienti in cui ospitare giocatori meno smaliziati, senza per questo credere che sia sufficiente mettere due fucili a pompa per creare qualcosa di più adatto a chi momentaneamente non vuole saltare sui funghi.
C’è un distacco sempiterno, clamoroso e infantile tra il mondo dei videogiochi e quello delle merci, dei prodotti e quindi della società stessa che sfrutta i videogiochi. Siamo infilati in un tunnel pseudo-fantasy in cui canzoni “licensed” all’interno di giochi non-musicali sono frequenti quanto i maiali volanti senza i Pink Floyd lì attorno. In cui ci si strabuzza gli occhi quando Wheelman propone qualche modello di auto realmente esistente nella sua Barcellona (nulla di che). Insomma, l’idea è che non vada cercata l’occasione solo quando questa è (o sarebbe) strutturalmente richiesta dal gioco. Esempio: se oggi un Forza Motorsforza 12 mi scende sullo scaffale con vetture inventate di sana pianta e nemmeno uno stemma famoso, è sbagliato. È rotto. È il male. Ovvio che li ci sia. Non è pubblicità, è l’anima del progetto.
Ma se Alex Mercer, il protagonista di Prototype, si soffermasse di fronte al cartellone pubblicitario dell’undicesima serie di “Lost” o, magari, passando di fronte a un negozio di musica semi abbandonato notasse uno stand per promuovere l’ultimo disco di Beck, con in sottofondo il disco in rotazione (nel locale)… be’, a me proprio non solo non darebbe fastidio, ma guarderei con rinnovata fiducia al cielo.
Burnout Paradise ha infilato qua e là grossi cartelloni pubblicitari. Ottimo. Avrei sperato che anche WipEout HD fosse capace di fare altrettanto. Invece la recente notizia relativa all’ingresso del mondo delle pubblicità nel gioco “download-only” per PlayStation 3 è avvenuto nell’altra maniera. Quella vecchia e statica: tra una schermata di caricamento e l’avvio della partita c’è un bel promo. Un “interstitials” à la World Wide Web insomma. Nulla di deprecabilissimo, in senso generale. Non mi piace, ma è il secondo metodo ipotizzato in apertura, che però… che però dovrebbe muoversi solo di pari passo con un bel vantaggio per il giocatore. Che ne so, un Euro di sconto sul prezzo del gioco. Almeno. Anche perché, e questa fa proprio male, l’inclusione dei suddetti spot ha portato a ritardi sensibili nel caricamento delle gare. Insomma: non solo qualcuno sta prendendo dei soldi grazie a me, che i soldi li ho spesi. Non solo io non ne ricevo un guadagno in termini di prezzo scontato. Ma ci devo pure rimettere un pezzettino di fegato di fronte a caricamenti che peggiorano col tempo invece di migliorare.
L’esempio che, invece, potrebbe tracciare una strada? Left 4 Dead 2. Valve ha proposto a una serie di potenziali partner la presenza nel gioco dei loro nomi/marchi. Lo ha proposto anche a un po’ di gruppi musicali, non tanto per ospitare canzoni nella colonna sonora (o non solo), ma anche per regalare ai protagonisti del gioco un vestiario più caratteristico e magari in linea con il giocatore. Ha risposto solo una piccola band inglese di belle speranze: i Depeche Mode (vedi immagine in testa a questo post). Magari saranno solo i primi. E magari WipEout HD si renderà conto di aver fatto uno strepitoso torto a se stesso, oltre che a chi ha il gamepad tra le mani.
4 risposte su “L’era dei pubblivori”
Oh, Mattia… dopo ‘sto post ti eleggo a mio Blog Preferito di Sempre, e ti piazzo in primissima posizione nel feed reader.
Sciapo’
P.S.: ma uno scambiettino di links nel blogroll come lo vedi? 😀
Che matto, credevo di averti già linkato. Ora c’è.
Non mi ricordo chi (forse quelli di Starbreeze, o forse quelli di Battlefield, o forse entrambi) mi diceva che il problema della pubblicità nei videogiochi intesa come “ti metto il barattolo di coca cola, o magari il cartellone pubblicitario dei biscotti” sta in due punti:
– non ci si guadagna (ancora?) un cazzo, sono inserzioni che vendi a pochissimo, perlomeno rispetto ad altri media;
– la maggior parte degli inserzionisti hanno attacchi d’itterizia all’idea che un loro barattolo possa essere riempito di piombo da un qualsiasi videogiocatore.
E che il punto 1 rende un po’ una rottura di cazzo pensare di accettare limitazioni imposte dal punto 2.
Belle cose. Ne approfitto per linkare questa faccenda del Bittanti + Tradanti: http://www.mattscape.com/art-2009.html.