Stesso posto, stessa gente, stessa console, ma nel 1992 era già cambiato tutto. Un anno dopo il debutto del Mega Drive al nostro civico, accompagnato da un paio di classici e un infiltrato, si torna sulle Dolomiti. Lo stesso posto è la stessa casetta in paese, a pochi passi da una sala giochi (ma negli anni ’90 quasi ovunque si era a pochi passi da una sala giochi) e con le solite giornate post-natalizie da colmare. Un po’ con lo sci, un po’ con il cibo, raramente con obblighi scolastici, spesso con i videogiochi capitati sotto l’albero il 25 (o il 24 sera/notte, come era più l’abitudine a quell’epoca, in casa nostra).
Le differenze, però, ci sono tutte. A novembre era stato il giorno di Sonic the Hedgehog 2, lanciato in contemporanea in tutto il mondo. Non ricordo bene perché, ma noi si era fatto il possibile e l’impossibile per poter giocare la versione giapponese. Una volta modificato il Mega Drive e acquistato il cavo SCART, ci si era aperto tutto un altro mondo. O, almeno, una serie di stanze extra collegate al salotto di sempre: stesso posto, ma ben più ampio e variegato.
Spendendo brevi pomeriggi sulle pagine delle riviste inglesi o americane di videogiochi, l’idea di poter finalmente accedere anche a quanto offerto da quei mercati, era troppo stuzzicosa. Soprattutto le riviste americane, poi, strabordavano di (minuscole) immagini e (lacunose) informazioni su sventagliate di giochi giapponesi. E qui arriviamo al punto: il Natale del 1992 si presentò con un vestito completamente diverso da quello che lo aveva preceduto. Prima il power-pop dei giochi mainstream, Streets of Rage e Sonic the Hedgehog. Dopo l’indie giapponese e una scelta altrettanto curiosa e imprevedibile.
Un negozio di giocattoli di Milano, che non avremmo mai più frequentato (credo si chiamasse Calligari, zona piazza Lambrate/Udine), aveva trovato posto per una vetrinetta ben illuminata. Dentro, una manciata di giochi giapponesi per Mega Drive. Non era un rivenditore specializzato nei videogiochi d’importazione, ma a quell’epoca poteva tranquillamente capitare di trovare confezioni piene di ideogrammi, anche in negozi e negozietti insospettabili.
I tre giochi del Natale del 1992 non sarebbero passati alla storia come quelli di dodici mesi prima, ma di meriti ne avevano anche loro. Uno dal Giappone (con la sua cartuccia stondeggiata): Hellfire, uno sparatutto interessante, crudele e che si comportava benone sul 16 bit nero con le sue nuove levette anti-barriere regionali. Uno dall’Europa (nel senso della versione del gioco): Zero Wing, altro sparatutto di buona caratura, allora ancora lontano dalla celebrità che, poi, gli avrebbe assicurato la strepitosa/tragicomica traduzione. Un caso esemplare di engrish, se ne esistono. Uno dagli Stati Uniti (nel senso dello sport praticato): David Robinson’s Supreme Court Basketball. Le console, e non solo, mi hanno spiegato moltissimo degli sport americani e non solo, negli anni ho passato delle belle giornate con l’NBA o l’NFL fatte a pixel. David Robinson’s Supreme Court Basketball aveva dalla sua, anche, quella visuale isometrica che ho sempre apprezzato tanto tanto, nei videogiochi sportivi (siamo a un anno dal debutto di FIFA International Soccer, a proposito).
Il Natale del 1992 è stato tanto importante quanto quello del 1991, per la mia formazione da giocatore/futuro adolescente con vaghi problemi relazionali. Quei giochi indicavano che ormai la vendita dell’anima era stata conclusa e certificata: non era stata una questione di passaggio, non c’era un interesse generico solo per i kolossal (o percepiti come tali), ma una totale passione per qualsiasi cosa potesse muoversi su schermo. Giochi di guida, di piattaforme, di astronavine che sparano, sportivi, di ingegno, di gente che si mena fortissimo: andava bene tutto, soprattutto a partire da quel 1992 che aveva abbattuto i muri d’Europa.