Siamo arrivati a un punto di equilibrio: nuovi annunci di remake ed edizioni rimasterizzate dei giochi non scatenano le classiche frange di indignados, non con la stessa regolarità di qualche anno fa. Una pace raggiunta scavalcando cadaveri tra i commenti ai piedi degli articoli, i tweet da reflusso gastrico e le sparate a occhi chiusi. Preparatevi a tornare in trincea, gli scontri si riaccenderanno all’alba della nuova generazione, quando le uscite di peso sconteranno qualche calo fisiologico in quanto a frequenza.
I remaster e i remake sono comunque, sempre, una buona notizia. Spesso lo sono per chi deve tirare i conti a fine trimestre, in generale fanno buon gioco pure a noi appassionati e in generale al settore: perché preservare è bene, anche se lo si fa riproponendo e aggiornando, piuttosto che replicando l’originale. Anzi, le due cose dovrebbe andare a braccetto, di pari passo e però è chiaramente più facile per i produttori scegliere la strada del gioco (almeno visivamente) al passo con i tempi, infinitamente più vendibile rispetto al fossile coi pixelloni. E vendibile a un prezzo molto più succulento, è naturale.
Capcom ci aveva visto giusto e per prima ha concepito e percorso la strada del remake con Resident Evil Rebirth nel 2002, a pochi anni dal lancio dell’originale di riferimento (1996). Non era un’edizione rimasterizzata, per così dire: in quel caso si dovrebbe probabilmente guardare al Super Mario All-Stars di Nintendo (1993). Con un remake come quello ci si infilava in un discorso più complicato e, potenzialmente, più stimolante e soddisfacente. Senza voler buttare giù una stretta regolamentazione elaborata sul momento, possiamo comunque essere tutti d’accordo nell’isolare un obiettivo comune a qualsiasi approccio, se si tratta di riproporre un’esperienza che viene dal passato. L’obiettivo è rispettare la memoria collettiva di quell’esperienza. Va bene, i sentimenti e le emozioni rimangono specifiche, personali e ognuno ricorda in maniera distorta le sue, ma c’è un più comune consenso sul valore percepito di certi giochi (o dischi, o film). Un remake deve essere abile nel prendere in giro il suo “utilizzatore finale“, illudendolo di conformarsi a quelle memorie, pur stravolgendole per ovvi motivi. Deve esserci una solida sequenza che si intersechi con quella originale, ma poi sufficiente materiale modificato da garantire alla riedizione la contemporaneità che si esige.
Capcom ci aveva visto giusto e messa di fronte al drammone del “mi triturano tutti le palle ogni volta che esce un nuovo Resident Evil”, ha saggiamente fatto quanto Nintendo aveva già fatto oltre dieci anni fa (allora partendo da esigenze diverse, ma ci interessa poco): ha diversificato, raddoppiato e dato a tutti quello che vogliono. Così c’è un Resident Evil in vecchio stile che appaga gli intransigenti malinconici e un Resident Evil nuovo che prova a fare cose nuove, senza scordarsi del tutto delle origini (Resident Evil 7, se lo chiedete a me, è il capitolo che più si avvicina al primo). Quando la tua storia diventa troppo lunga e troppo complessa e quando il tuo pubblico copre una forbice demografica tanto estesa da non poter essere rinchiuso in un unico “caso”, non c’è altra strada. Nintendo aveva affiancato la serie New Super Mario Bros. (2006) a quella in 3D, conscia anche che i giochi tridimensionali della serie avevano totalizzato vendite ampiamente inferiori a quelli in 2D. Qui si potrebbe aprire una parentesi infinita aperta già tante volte, in tante altre occasioni, sull’evoluzione dei videogiochi, sulla perdita/acquisizione di appeal, su chi gioca a cosa, etc.
Resident Evil 3, inteso come il remake disponibile da qualche settimana, mi ha proprio demoralizzato, per tanti motivi e forse per nessun motivo in particolare. Oltre vent’anni fa non avevo mai completato Resident Evil 2, mi era sembrato un noioso replicone del primo, ma meno ispirato e, così, non era scattata la scintilla. Andò ben diversamente con Resident Evil 3, affrontato e goduto con molto gusto. La mia sensazione dell’epoca è che a nessuno fregasse di Resident Evil 3, dopotutto eravamo nel pieno della febbre da Dreamcast e si contavano i giorni alla discesa tra le folle di PlayStation 2. Va da sé che fosse una percezione falsata dal frequentare in larga parte appassionati di videogiochi e non giocatori sani di mente. Prima di mettermi a provare la versione per Xbox One X di questo Resident Evil 3 2020, ho recuperato qualche recensione internazionale dell’epoca (1999) e ho (ri)scoperto che era stato ben accolto.
Non so dire se il remake di Resident Evil 3 sia “sbagliato” o sia rotto in qualche senso. Non ricordo nulla dell’originale, se non una gran bella sensazione di ansia da “mi piglia, mi piglia, MI PIGLIA!”. Non so se siano scomparse delle sequenze, dei pezzi, dei puzzle o che altro, ma so di aver giocato il remake di Resident Evil 2 un anno e un pezzetto fa e di aver visto nel gioco di oggi, in larga parte, una brutta copia di quell’inseguimento (allora Mr. X, qua il Nemesis). Era davvero così vicina e sovrapponibile, l’applicazione dell’idea, anche nei due titoli originali? Quale che sia la risposta, il risultato è che Resident Evil 3 Remake mi si è subito presentato con quel sapore di pasta saltata in padella il giorno dopo.
Non è però questo il problema principale dell’intera operazione, quanto il non essere riuscita per tanti motivi a ratificare, confermare, consolidare, espandere il ricordo di quanto avessi giocato nel 1999. Non c’è mai stato un momento in cui il gioco mi sia sembrato importante, epico, potente. Tutto un continuo rifare, riproporre, annacquare. Anche l’idea di continuare a combattere Nemesis, che segue naturalmente l’idea del “pensavi di avercela fatta eh? E invece col cazzo!”, è stucchevole oggigiorno. O forse è stucchevole adesso, non lo so. Resident Evil 2 (il remake) mi avevo convinto in ogni momento: tecnicamente non gli si poteva dire nulla, l’atmosfera c’era tutta, i meccanismi riuscivano a essere al contempo nostalgici e quindi amabili, ma anche oliati a sufficienza da sopportare il peso delle aspettative del giocatore di oggi (leggasi: abituato ai giochi di oggi). Resident Evil 3 non mi ha mai dato* l’idea di essere un tributo nato dalla passione e dal rispetto per un grande gioco, quanto più una spunta da mettere su una lista di cose da fare.
In tutto questo c’è anche la possibilità che l’originale non fosse già di suo un grande gioco, ma la faccenda della percezione, della verità, della realtà e via andando l’abbiamo già smarcata all’inizio (e non avrei comunque conoscenze adatte ad affrontarla meglio di così, anche fossero solo quelle lessicali).
*Non ho finito il gioco, sono a circa l’80% e però mi sono anche rotto.
3 risposte su “Resident Evil 3: remake, demake e illusione”
RE3 Remake (chiamiamoli anche reboot, va) non è altro che un gioco d’azione con setting di genere ispirato a RE3. Non vedo altro modo per digerirlo. Non che sia un brutto titolo di per sé…
Non sono d’accordo, il reboot si riferisce a una serie, a un marchio, non a una singola uscita di quella serie.
Leggo solo ora la risposta, scusami. Sinceramente non essendoci una definizione precisa della cosa, e guardando a come il panorama giapponese si sia sempre distinto per questo tipo di reinvenzioni (il caso di Ys IV di Falcom, ad esempio), continuo a credere che il termine reboot non sia poi così errato.