Intro: per la spiegazione del perché e del percome della peraltro deliziosa collana “Zeros”, si veda questo post.
Ancora qui con la storia del terzo disco, quello della conferma. Intramontabile almeno tanto quanto noiosa. Josh Homme e Nick Olivieri, però, devono averla presa sul serio attorno al 2001, quando si mettono al lavoro su “Songs for the Deaf”, terza impresa discografica del gruppo che ha debuttato solo pochi anni prima (1998) e ha già infilato un paio di “hit” con il precedente “R”. E se disco della conferma dev’essere, che sia. Anzi, già che ci siamo mettiamo assieme anche il miglior album che mai porterà il marchio Queens of the Stone Age. La stampa statunitense ha già le antenne drizzate, tra questo e il nuovo dei White Stripes, pare che sia tornato il momento per il “vero” rock’n rock di alzare lo sguardo e smetterla di vergognarsi. Qualcuno giura addirittura di sentir partire dei vaffanculo degni di nota durante i circa 60 minuti del disco con la “Q” spermatozooata.
Dargli torto è impossibile.
A devastare le pelli c’è, per l’occasione, Sua Santità Dave Grohl, in forma come non lo si ricordava da dieci anni circa. Da “In Utero” insomma. Non che, dopo, abbia avuto molto modo di dimostrare, qualora ce ne fosse bisogno, che come si sloga i gomiti lui, non se li sloga nessuno. Eppure è proprio l’alchimia perfetta che si crea tra Homme, Olivieri e Grohl a sancire la nascita di un maestoso album picchiato, gridato, incazzato ma, ancora prima, convinto e divertito. Addirittura un disco tematico, volendo dare retta ai finti DJ che si alternano nella spedizione nel finto etere delle tracce di “Songs for the Deaf”, che si vorrebbe amare con un opera lo-fi, a tratti talmente garage da diventare quasi cantina, ma solo a tratti. Perché poi Homme e Grohl adorano evidentemente troppo e con troppa saliva il suono ricco, pieno ed esplosivo di chitarra e batteria per mascherarlo sotto qualche filtro di troppo.
Si prenda quale indizio probantissimo l’avvio del tutto: una voce maldestra dalle casse di un’auto che parla attraverso le corde vocali di una radio mal sintonizzata. Ma dura quel che deve durare, perché poi esplode “You Think I Ain’t Worth a Dollar but I Feel Like a Millionaire”, che non solo entra nella classifica delle canzoni dal titolo più figaccioso di sempre, ma ti brucia via anche le ‘recchie. Perché magari, due secondi prima, hai alzato il volume credendo che tutto sommato fosse davvero un disco registrato tutto lurido, salvo poi ritrovarti con le casse di cui sopra bruciate.
Nemmeno il tempo per riprendersi e c’è di che bombarsi pesantemente con “No One Knows”, il singolone. Il pezzo in cui pare più evidente la natura aliena di Grohl, in realtà ampiamente palesata da quasi ogni altra traccia.
“Songs for the Deaf” continua senza interruzioni, senza fermarsi, inanellando quel suono da sfattoni (“stoner-stoned”) a cui la zia ha malauguratamente regalato chitarra e ampli. Nella costruzione precisa e possente, nell’incedere inarrestabile, nel guardare con le occhiaie ai riff e ai muri della sezione ritmica, c’è una lontana eco da “dopotutto se i Led Zeppelin fossero vivi…”. Ma non è vero nemmeno questo. Qui c’è tutto il deserto da reietti di Homme, il sole bruciante, la notte gelida e il nulla tutto attorno. Abbastanza perché gli spazi vengano riempiti senza limiti anche dalle velleità dai lontanissimi sapori blues di “A Song for the Dead”. La bestia impazzita continua a macinare asfalto correndo a perdifiato in “The Sky is Fallin’”, graziata da una chitarra imponente, maestosa, spettacolare, grattata, ignobile, che sogni di essere al concerto per farti male. O ti immagini riempito di droghe brutte brutte nel minuto e rotti di “Six Shooter”, che regala l’ultimo vagito di protagonismo all’Olivieri prossimo alla cacciata dal gruppo. Poi il basso sott’acqua e la voce da “gli voglio dare dei soldi extra, come faccio?” di Lanegan in “Hangin’ Tree”, i tre minuti che sono sempre troppo pochi di “Go With the Flow” e tutto quello che viene. Il 2002 è stato un buon anno, “Songs for the Deaf” è tra i migliori dischi del decennio, il migliore?
Gli altri classificati:
Tanta gente. Hanno rischiato di vincere il riflettore principale gli Interpol con l’altrettanto splendido “Turn on the Bright Lights”, si è avvicinata Tori Amos con “Scarlet’s Walk”, l’ha snasato Beck con “Sea Change”, l’avrebbero giustamente voluto i Royksopp di “Melody A.M.”, i Chemical Brothers di “Come with Us”, i Decemberists con “Castaways & Cutouts”.
2 risposte su “Zeros – 2002: Songs for the Deaf (QOTSA)”
[…] degli Arctic Monkeys. Se non sta insultando un fan in prima fila, probabilmente pensa al prossimo disco dei Queens of the Stone Age. Momentaneamente libero dal tour degli Eagles of Death Metal, riflette […]
[…] maggioranza di chi era saltato sulla macchina spedita a velocità smodata nel deserto di “Songs for the Deaf” se ne sono andati. Niente più aspirina e Coca Cola, nessun bagordo, le luci si spengono, se […]