San Siro dà, San Siro toglie: e alla fine rimango con il dubbio di non aver capito come posizionare il concerto, prima delle due serate che gli U2 dedicano a Milano all’interno del loro 360° Tour. Durante i primi venti minuti è tutto un guardare fisso, interrogativo, con occhiate stupite a mio fratello e alla Signorina Lucia… c’è qualcosa che non va. A differenza dei Depeche Mode, questa volta siamo in alto: niente prato, terzo anello. Non per scelta, ma per obbligo (Ticketone, sto guardando te). Il clima è libero, felice e appassionato. Scomparsi i poveracci che hanno riempito il finto parterre di Gahan e soci solo per mirare a un po’ di materia prima facile, magari lanciando birre a cazzo un po’ ovunque, qua ci si deve sorbire al massimo una confraternita teutonica dedita alla pulizia-con-panno-igienizzato delle seggioline. Non capiamo, ma ci adeguiamo.
Lo shock, quello accennato prima, però rimane: “ehi, ma si sente da schifo!”. Ma tipo da schifo. Ma tipo troppo da schifo e in maniera troppo improbabile per essere un semplice problema strutturale dello stadio: la voce arriva ora nitida, ora velata, a tratti possente, altre volte ovattata. La stessa sensazione di quando un suono una voce vengono momentaneamente nascosti da un ostacolo, una finestra, una persona che passa. Non può essere. Misteriosamente, dopo i primi cinque o sei pezzi, la situazione migliora. E’ anche il tempo che gli U2 si sono dedicati per voler bene allo splendido “No Line On the Horizon”, che tiene a battesimo il concerto con le prime quattro canzoni.
Mese: Luglio 2009
Chains
Fino a ieri portarsi a casa Chains attraverso Steam voleva dire sbattersi di più per l’eventuale registrazione al servizio o l’estrazione fisica della carta per leggere il codice, piuttosto che il potenziale fastidio da esborso di denaro. Per farla breve: costava 1,99 Euro. Oggi è tornato al prezzo “standard” del catalogo Valve, un monumentale 3,99 €. Con circa 4 € ci sfami un bimbo nel Ciad per del bel tempo, certo, ma per intanto ci porti anche a casa Chains. Che è un puzzle game semplice semplice ed efficace efficace. Di quelli che la gente dovrebbe e potrebbe giocare su Facebook e deserti simili, se solo il mondo fosse un posto migliore.
La prima creaturina di 2Dengine.com è teoricamente la solita roba con le bolle colorate da eliminare. Ma solo teoricamente, in pratica, invece, mette sul piatto una ventina di prove con un level design esclusivo a quasi ognuna delle prove stesse. La meccanica fondamentale rimane invariata (si possono evidenziare e collegare tra loro le bolle dello stesso coloro che si trovano adiacenti, senza alcun limite quantitativo), ma si modificano gli obiettivi: a volte può servire far esplodere cento bolle in sole dieci mosse , altre volte è fondamentale continuare a eliminare sfere colorate per non fermare il flusso delle stesse (che continuano a cadere dall’alto). E via via via, con sotto una colonna sonora ipno-elettro-trance belga che detta così pare l’azzeramento della voglia di vivere e invece ce la fa.
Limitatissimo ma efficace, Chains funziona in funzione (yo!) del suo limitatissimo costo. E quindi, e comunque, e anche per questo va promosso senza dubbio alcuno.
Cosa: Chains
Chi: 2Dengine.com
Dove: Steam
Come: puzzle game con le bolle
Zavalutazione: ♥♥♥♥♥
La faccia schifata, contrita, disgustata e allucinata di una signorina per bene quando la metropolitana si ferma a Centrale. Lei, discesa dal cielo sulla sua nuvola di zucchero e attorniata da mille putti canterini, non può sopportare di trovarsi dove si trovi. Di fronte ha un impiegato vestito bene, forse addirittura un dirigente: giacca che stoica sopravvive al vapore umano che sale dal carro merci in cui si è tramutato il vagone, dà le spalle alla Principessina di ‘Sto Cazzo. Non mi sembra emani chissà quale fetore, peraltro cosa assai più che probabile anche quando si parla di giaccati&cravattati omini che in altri tempi furono Yuppies. Invece lei è schifata, con quel suo rifiutare la realtà che mi pone mille domande sull’incapacità di tanta gente di venire a patti con la realtà. E la realtà della Milano da bere di oggi è che si beve l’acqua piovana del monsone che ha investito provincia e capoluogo, tanto che ci metto quaranta minuti di auto da casa a Cologno, dieci minuti di attesa della metrò di cui sopra e poi un viaggio che, nonostante le bellezza di “Terra” (S. Benni) e “Tearjerker” (Red Hot Chili Peppers), tende a diventare fastidioso. Soprattutto perché a un certo punto non c’è più spazio per tenere aperto il libro e quindi mi tocca divagare e studiare la fauna, con particolare attenzione per quella che, incurante delle più normali leggi volumetriche e della compenetrazione dei corpi (al di fuori della filmografia pornografica), continua a spingere ossessivamente per trasportarsi dalla banchina al macello interno della carrozza.
Wilkommen, Klein Tomato!
Inizia la grande avventura per salvare da morte certa Klein Tomato, evidentemente incapace di assorbire il dolore della perdita (seppur momentanea) della Padrona di Casa. E così, mentre la Signorina si interrogava sui perché e sui percome, lui ingialliva. Mesto dentro e fuori. Il passaggio temporanea in zona Cernusco non poteva aiutare e difatti non ha aiutato: lì la “mamma” c’era stata, a lungo. E quindi giù altra malinconia canaglia, un ramo che cede alla depressione cosmico-vegetale… Ma ora… ora si può ricominciare a guardare avanti, in una valle incantata che distenda i nervi e le foglie di Klein Tomato, che gli ridoni l’antica (si fa per dire) verve e, soprattutto, la voglia di sopravvivere alle snasate di venti minuti buoni di Zero. L’unica foto disponibile a oggi (oltre quella scatatta con il cellulare in casa Surgovic, che verrà utilizzata solo in casi estremi e di fronte a un giudice) è questa qua sopra, notturna visto l’orario e quindi incapace di raccontare la faccetta mogia del pallido Tomaten. Domani, però, è un altro giorno. Basta non ricordagli che l’amata veronese vorrebbe uccidergli i figli e farli a fette.
Tutte le vittorie del Milan
Nel solito, bieco, tentativo di vincere settatancinque mila accessi al blog e poter rispondere finalmente alla telefonata di qualche sponsor coi soldi, dedico un bello spazietto al Milan. All’A.C. Milan di Milano. Perché? Perché oggi, nelle tumultuose ore ufficiali (da ufficio/in ufficio) ci si chiedeva esattamente perché Tucano (il Gallia[ni] Hotel) continui a svendere in giro il Milan come “la squadra più titolata al mondo”. Si suppone che abbia le sue buone ragioni, tanto che io gli ho sempre dato fiducia. Con quella cravatta lì, poi, come non dargli fiducia? Però poi uno fa due conti, tutti rigorosamente basati sull’enciclopedia meno affidabile del mondo (Wiki), e rimane col punto di domanda in testa.
Perché se è vero che il Real Madrid ha vinto 9 (nove) Coppe Campioni/Champions League, 31 scudetti, 3 Coppe Intercontinentali e altri settemila trofei a caso… come può ritenersi superiore il Milan con un numero minore di trofei? Per il semplice fatto della varietà canaglia? Ovvero hanno più trofei singoli, di faccende varie, piuttosto che uno smodato (e godurioso) accumulo di scudetti e Champions League? Se possibile attendo una risposta sia del Grùspola, che del Loggia. A buon rendere.
Edit pre-pubblicazione: come da sospetti, il conteggio è dedicato alla varietà (non dico qualità di certo) e non alla quantità. Il discorso lì sopra è ora in parte spiegato, ma rimane l’annoso problema: conta di più aver vinto qualche Coppa delle Coppe o aver seicento scudetti e due Champions in meno del Regal?
Barefoot in the Parklife
Agli inglesi piace incredibilmente essere inglesi. Purtroppo per gli altri che non lo sono, come quella famosa battuta per cui quando c’è nebbia il continente è isolato. Di inglesi inglesi come i Blur non ce ne sono stati molti negli ultimi vent’anni di musica. Ci sono e ci sono stati gli Oasis, ovvio, ma è un’Inghilterra diversa quella di Manchester. Quando Damon Albarn allarga le braccia e si regala un sorriso a trentuno denti, socchiudendo gli occhi di fronte al sole che cala pacioso su Hyde Park, capisci che ha fatto il giro e scoperto tutti i modi di essere britannico di Londra. Il sorriso è ampio e sincero, il cuore ricolmo di autentica estasi perché sta facendo quello che voleva fare, con i ragazzi con cui voleva farlo, di fronte al suo pubblico, cinque minuti più in là di dove abitava prima di essere il belloccio dallo sguardo furbo che ha preso in mano i resti degli Stone Roses e li ha utilizzati a suo piacimento per dieci anni. Prima era il giovane posato ma rock, con le magliette Fred Perry sempre in ordine, ma l’occhio astuto: bello, fighetto e anni ’90. Oggi ha tramutato uno di quei due denti del radioso sorriso in un inno alla natura zingara, dipingendolo d’oro. Ha preso anche qualche chilo e quindi si è tramutato felicemente in un inglesotto di mezza età (ma ancora nella metà “buona”) con qualche rotondità e meno classe, tendenzialmente ottimo per ubriacarsi un venerdì sera a caso in un pub della Notthing Hill che frequenta senza remore. Ma è sempre inglese al 100%, pur adattandosi all’età, come è totally british il concerto che raduna circa 60.000 persone ad Hyde Park la sera dello scorso giovedì: i Blur sono tornati a suonare assieme dopo circa nove anni. Dove per “assieme” si intende “ora con più Graham Coxon”, anche lui non esattamente pulitino e carino come ai tempi d’oro, ma pronto a una seconda metà di vita da chitarrista e autore ricercato e capace. Ha dalla sua un po’ del fascino alla Eric Clapton, meno disegnato e più schizzato con un pennino rispetto ai tempi di “Parklife”.
Appena tornato da Londra, il regalo di laurea di donna Santilli ha funzionato nel migliore dei modi e dei mondi possibili, quello rappresentato per l’occasione da sessanta e rotte mila persona riunite a Hyde Park. Ma non è questo il momento per parlare del concerto dei Blur. Sul giradischi gira (ovvio) “One Hot Minute”, l’unico altro disco dei Red Hot Chili Peppers che serve davvero dopo “Blood Sugar Sex Magik”, di un bello che ancora oggi non perde un’unghia del suo impatto. L’ultima volta che Kiedis, Flea e soci hanno provato (volenti o nolenti, vedi alla voce “Frusciante è uscito dal gruppo”) a non stare fermi. E hanno fatto qualcosa di splendido, largamente sotto-apprezzato dalla critica che voleva solo “Blood Sugar Sex Magik Parte 2”. All’arrivo anche la gioiosa scoperta che il postino ha infilato a CazzoDiCane l’LP di “Vitalogy” nella casella, solo per un angolo: la pioggia di oggi ha fatto il resto. Non sufficiente per ammazzarlo, né per fargli venire un raffreddore grazie al cielo. Domattina i vicini si pupperanno quello.
Felicità, abbracci, figli maschi e saluti.
Pop Machine
I dati sono fuori. La settimana che si è chiusa domenica scorsa è stata scandita da Nielsen Soundscan che ha decretato l’unico verdetto decretabile: il dominio non solo incontrastato, ma puranco da record di Michael Jackson nella categoria “Billboard’s Top Pop Catalog Albums”. Nove posizioni su dieci, otto a nome di Jackson, una per l’allegra combriccola dei Jackson Five. La domanda retorica più retorica del mondo della musica, che si era posto anche Zio Lampadina Corgan (“If I were dead/would my records sell?” – “Heavy Metal Machine”, 2000), ha avuto la solita risposta.
Chiuse, circumaurali, con una frequency-response da 5 a 53.000 Hz e una normal impedence di 80 Ω, le DT 770 Pro di beyerdynamic sono una figata spaziante. Cioé, non ho veramente idea di cosa diavolo sia la normal impedence, ma, per dirne una, “Vs.” (Pearl Jam) non è mai stato sentito con tutto questo fluido di amore in circolo, almeno tralasciando i concerti dal vivo. Dolci dono del Gorman, le DT 770 Pro seguono l’evoluzione delle faccende per le orecchie e la musica avviata in maniera molto soft con gli auricolari in-ear di vario retaggio acquistati negli anni 2000. Cose belle, il difetto vero è che se oggi andassi a scuola nascondere una delle due padelle nel palmo della mano sarebbe meno probabile. E quindi dovrei pupparmi Dante nelle ultime due ore del sabato, che, si sa, non esistono.