Suntone per chi non vuole leggere più di 140 caratteri sull’internet: “In questo post dico che il primo disco dei Foo Fighters non solo è il migliore, ma proprio è un’altra roba”.
Nel suo “La versione di Barney”, Mordecai Richler interpreta il vecchio e mezzo rincoglionito ebreo canadese Panofsky. Dimentica il nome di oggetti di uso comune, confonde le date e mescola a sua insaputa ricordi della gioventù. Io, nella mia Versione Panofsky, ricordo abbastanza chiaramente l’estate del 1995, in particolare un momento: in vacanza nei pressi di Golfo Aranci (Sardegna), frequentavo spesso e volentieri una peraltro malmessa edicola del porto. Primo: perché ero già, inconsapevolmente?, affamato di riviste e affascinato dalle stesse. Secondo: perché in zona non era rara la frequentazione di militari americani (d’istanza lì attorno), il che portava alla presenza di una nutrita gamma di pubblicazioni inglesi dedicate al grande mondo del rock’n roll. Insomma, compravo (o scroccavo) il New Musical Express, mi sciroppavo roba di Melody Maker o Kerrang! e adocchiavo senza vergogna anche le faccende italiane à la Metal Hammer. Insomma, ricordo abbastanza chiaramente di aver letto, in piedi e mezzo ipnotizzato, di un’anteprima del disco dei Foo Fighters. L’omonimo disco che avrebbe debuttato a brevissimo e di cui l’autore del pezzo aveva potuto ascoltare una versione completa: mancavano, però, i titoli delle canzoni. Quindi “Big Me” diventava “I Fell Into”, per dirne una. Eppure è impossibile che sia successo, perché il primo album del post-Nirvana per Dave Grohl nell’agosto del 1995 era già stato pubblicato. Non solo: lo avevo di già, dato che ho delle vere certezze (qui sì) su di una vacanza nel luglio dello stesso anno a Cannes a casa di un mio ex-compagno di classe. Lì mi sono presentato con il disco in mano, costringendolo a ripetuti ascolti e con dei repeat posizionati ad arte su “Good Grief” e “Alone + Easy Target”. Fast forward di un anno, perché ora sono sul balcone dell’appartamento a Vimodrone, durante una festa di compleanno di mio fratello (marzo) in cui si parla, con altra gente che non ha preso bene il buco in testa di Cobain, di quanto sorprendentemente buono sia il lavoro dell’ex batterista.
E sorprendentemente buono, l’operato di Grohl in “Foo Fighters”, lo è per davvero. Talmente buono che rimarrà unico. Non è una questione di “dopo il primo disco si è sputtanato”, è proprio che quei Foo Fighters, se mai sono realmente esistiti al di fuori di una fortunata serie di circostanze coatte, hanno smesso di essere quando si sono tramutati in un gruppo. L’album di debutto, come ampiamente risaputo, è tutto scritto e suonato dal nostro ex capello lungo e faccina da cavallo giovane, con l’aggiuntina di una schitarrata sontuosa di Greg Dulli in “X-Static”. Cercava di passare sotto silenzio, scegliendo uno pseudonimo da gruppo piuttosto che il nome di battesimo e scegliendo l’immagine dell’oggetto volante non identificato (Foo Fighter, appunto), ma poi si è velocemente arreso. Anche perché se lo meritava. Con le recensione entusiastiche, la metà dei Sunny Day Real Estate e Pat Smear al fianco, ha dato un senso al nome “da gruppo” di cui sopra. Trasformando irrimediabilmente il suono.
Quello di “Foo Fighters”, di suono, è indefinitamente sincero e ruvido. La produzione è secca e semplice, l’impatto immediato e galvanizzante. Ma, soprattutto, è il tono emotivo generale a distaccarsi da qualsivoglia album in futuro realizzato sotto lo stesso nome. Il disco del 1995 pare crederci, si prende sul serio, è vagamente incazzato e non ride mai. E’ una faccenda su cui non scherzare, nonostante la limata morbida della già citata “Big Me” e nonostante, soprattutto, il video che metterà in bella mostra la vena da ragazzetto scemo di Grohl. Però su disco si grattano chitarre, si distorce, si filtra la voce e quel che ne viene fuori è un urlo personalizzato e irripetuto dal padrone di casa. Non c’è traccia di pop, solo qualche riff molto efficace e il giro di basso di “Alone + Easy Target” che è del vecchio Novoselic. Nel 1995 nascono e nel 1995 muoiono i primi Foo Fighters, quelli della one-man-band.
Quello è il disco che avrebbe meritato tutte le fortune del mondo, non perché rappresentasse chissà quale rivoluzione sonora, ma semplicemente perché era un ottimo e robusto debutto di quello che fino a cinque minuti prima era nei Nirvana e quindi, nella mia mente di adolescente abbandonato appena scoperta la musica che conta, doveva essere così. E così è stato. Peccato per la mancanza di “Marigold”, tutto sommato poteva starci, alla fine chissenefrega…*
Già due anni più tardi era tutto cambiato, anche se “The Colour and the Shape” può perlomeno fregiarsi di essere il miglior disco di questi secondi Foo Fighters. Dalla sua ha “Everlong”, che, sarà anche la scelta più banale di questo mondo, è quanto di meglio fatto dal gruppo. Però il secondo album è già totalmente intriso di divertimento e disimpegno: se prima potevo immaginare, tutto da solo probabilmente, che Grohl stesse provando a fare qualcosa di importante, di seguire a modo suo la strada segnata dalle All Star del suo ex datore di lavore, ora invece vuole godersi del rock, vivere sul palco, scherzare e poco altro. Il che non implica chissà quale sfacelo musicale (anzi), ma di sicuro cambia l’impatto, l’immagine e il senso del gruppo ai miei occhi. Da allora i Foo Fighters sono stati (e sono) tra i gruppi più comodi ed efficienti per sentire un po’ di chitarre, qualche accelerata, qua e là una ballata. Mai nessun disco che ti tocca davvero dentro, però, perché evidentemente non era questo il senso della band e della musica. Ho comprato tutti gli album, li ho visti dal vivo un paio di volte (o tre? Panofsky!) e va tutto bene così alla fine.
“The Colour and the Shape”, Gil Norton (Pixies, tra gli altri) alla produzione, ha un sacco di bella roba, ma quando si inerpica nel mondo del semi-quasi-post-punk, lo fa sempre mettendo bene in chiaro che tutto sommato ci si sta divertento e nulla più. Anche ai tempi, all’arrivo del primo singolo (“Monkey Wrench”) e del relativo video con un Grohl pizzetto-dotato, avevo storto la bocca. C’era qualcosa di troppo allegrotto e divertito perché non potessi fare quello che “sì, ok, però il primo album”. O forse era proprio quel pizzetto che definitivamente allontava l’immagine del Grohl 1997 dal Grohl 1990-1995, ovvero quello dei Nirvana.
Due anni dopo le cose peggiorano, perché “There is Nothing Left to Lose” è troppo smaccatamente MTV e Orange County per essere un album scritto e voluto da quello di “For all the Cows”. Anche se l’inizio è dei più promettenti (“Stacked Actors”) e in mezzo c’è anche un pianofortino che levati (“Ain’t it the Life”). Ma qui si va troppo sul cazzaro. Nonostante il bel lavoro di Nate Mendel al basso.
Aspetto due anni per ritrovare il miglior Dave, che non è il leader dei Foo Fighters, ma il batterista dei Queens of the Stone Age, in un momento di eccellenza assoluta e di libidine da guinness in “Songs for the Deaf”. Ai tempi mi auto convinco che quell’esperienza possa servire per un ritorno a un mood meno cretinetti nel prossimo disco dei Foos. E in effetti “One by One” mi piace un bel po’: “All my Life”, singolo apripista, non sarà ruvido e sanguigno come la roba del primo album, però ce n’è abbastanza per dire che non tutto deve finire come le risate di “There is Nothing…”. Ad anni di distanza interviste e Wiki assortite mi fanno cadere sulla testa la rivelazione: a Grohl “One by One” nemmeno piace. “Quattro canzoni sono davvero belle, quelle che rimangono non le ho più suonate in tutta la mia vita”, evviva. Be’, oh, cazzi suoi comunque.
Intanto i Foo Fighters continuano a vincere Grammy, tutti ne parlano sempre bene, vendono decentemente (se non di più) e guai a chi li tocca. Non si fossero chiamati Foo Fighters e non ci fosse stato l’ex batterista dei Nirvana in mezzo, sono sicuro che sarebbero a raccattare abbracci sul MySpace di qualcuno, magari anche di tanti, di certo non sui palchi in continui tour mondiali. E non perché non si meritino dell’amore, ma perché non se ne meritano così tanto, così universale, così clamoroso. Sono un buon gruppo, fanno generalmente dischi onesti, ben suonati, con spunti anche particolarmente riusciti, ma non è che proprio sia roba per cui strapparsi i capelli.
L’ultima fase è piena della voce un po’ in fase calante di Grohl nella metà “violenta” del doppio “In Your Honor”, ma anche delle belle atmosfere solitarie della metà acustica. Una piccola epopea-Foos che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rappresentare il “Physical Graffiti” di questi anni bui, ma che se ne torna a casa lasciando il mondo come lo ha trovato, pur meritando tutti le strofinate di naso del caso anche solo per averci provato (a fare un doppio negli anni 2000**).
Poi è storia recentissima, quella di “Echos, Silence, Patience & Grace” che, forte del ritorno di Gil Norton, rimane di sicuro il disco più a fuoco, compatto, efficace del post “The Colour and the Shape”. Ha davvero passaggi fulminanti (“Let it Die”, “Come Alive”) e una chiusura morbidona da canna sul terrazzino a guardare le stelle e chiedersi perché (“Home”).
I Foo Fighters dei sognanti nineties sono nati e morti in un anno, ora Grohl ha un bel mestiere, meritato più di tanta altra gente. Però, oh, c’ha pure la pappagorgia dal vivo. E’ un vecchio. Certo, nulla a che vedere con la rispettabile cariatide in cui si è tramutato l’ex alcoolista poco anonimo Krist, mapperò… Mapperò il prossimo disco (se e quando arriverà), si comprerà lo stesso. Figurarsi.
ART DA PART
Stilisticamente i Foo Fighters ne hanno azzeccata più d’una. La copertina dell’album di debutto ritrae, con i suoi toni seppiolati e un po’ di artifici, la Atomic Disintegrator Pistol di Buck Rogers. Il cerchio tra l’iniziale volontà di passare sotto i radar, il nome del gruppo e l’artwork si chiude. Nonostante qualche passaggio a vuoto (“The Colour and the Shape”, oppure “One by One”?), poche volte Grohl e i suoi si concedono reali brutture e con il disco del 2007 tornano in zona 1995 con l’illustrazione (le illustrazioni) di Don Clark.
FOOLIST
L’odiata playlist che va tanto di moda. No, col cazzo, l’odiata playlist che è lo standard. Solo per esercizio personale: quattordici canzoni irrinunciabili nel mondo dei Foo Fighters.
- This is a Call (Foo Fighters)
- Enough Space (The Colour and the Shape)
- Come Alive (Echoes, Silence, Patience & Grace)
- Alone + Easy Target (Foo Fighters)
- Stranger Things Have Happened (Echoes, Silence, Patience & Grace)
- What If I Do (In Your Honor)
- Stacked Actors (There is Nothing Left to Lose)
- All My Life (One by One)
- Tired of You (One by One)
- Wattershed (Foo Fighters)
- Everlong (The Colour and the Shape)
- Come Back (One by One)
- Exhausted (Foo Fighters)
- Home (Echoes, Silence, Patience & Grace)
* = No che non poteva, era già la B-Side di “Heart Shaped Box”.
** = Altra menzione sulla questione: il doppio “Stadium Arcadium” (2006) dei Red Hot Chili Peppers. Finito all’incirca come il tentativo dei Foos.
3 risposte su “Foo Fighters: “just another rock band”?”
Così, su due piedi, tra le 14 metterei pure February Stars, secondo me una da top 3 Foo Fighters.
Sì ma infatti il fastidio di fare una selezione simile è che dopo sei secondi non sono già più d’accordo con me stesso. Si potrebbe tranquillamente sostituire “Stranger things…” con “February Stars”.
[…] dopo la fine dei Nirvana. Essenziale, squinternato, ruvido e giovanissimo, è un album come a Grohl non capiterà più di riuscirne a fare. Purtroppo. E forse nemmeno a PJ Harvey è riuscito di replicare l’efficacia di “To […]