Agli inglesi piace incredibilmente essere inglesi. Purtroppo per gli altri che non lo sono, come quella famosa battuta per cui quando c’è nebbia il continente è isolato. Di inglesi inglesi come i Blur non ce ne sono stati molti negli ultimi vent’anni di musica. Ci sono e ci sono stati gli Oasis, ovvio, ma è un’Inghilterra diversa quella di Manchester. Quando Damon Albarn allarga le braccia e si regala un sorriso a trentuno denti, socchiudendo gli occhi di fronte al sole che cala pacioso su Hyde Park, capisci che ha fatto il giro e scoperto tutti i modi di essere britannico di Londra. Il sorriso è ampio e sincero, il cuore ricolmo di autentica estasi perché sta facendo quello che voleva fare, con i ragazzi con cui voleva farlo, di fronte al suo pubblico, cinque minuti più in là di dove abitava prima di essere il belloccio dallo sguardo furbo che ha preso in mano i resti degli Stone Roses e li ha utilizzati a suo piacimento per dieci anni. Prima era il giovane posato ma rock, con le magliette Fred Perry sempre in ordine, ma l’occhio astuto: bello, fighetto e anni ’90. Oggi ha tramutato uno di quei due denti del radioso sorriso in un inno alla natura zingara, dipingendolo d’oro. Ha preso anche qualche chilo e quindi si è tramutato felicemente in un inglesotto di mezza età (ma ancora nella metà “buona”) con qualche rotondità e meno classe, tendenzialmente ottimo per ubriacarsi un venerdì sera a caso in un pub della Notthing Hill che frequenta senza remore. Ma è sempre inglese al 100%, pur adattandosi all’età, come è totally british il concerto che raduna circa 60.000 persone ad Hyde Park la sera dello scorso giovedì: i Blur sono tornati a suonare assieme dopo circa nove anni. Dove per “assieme” si intende “ora con più Graham Coxon”, anche lui non esattamente pulitino e carino come ai tempi d’oro, ma pronto a una seconda metà di vita da chitarrista e autore ricercato e capace. Ha dalla sua un po’ del fascino alla Eric Clapton, meno disegnato e più schizzato con un pennino rispetto ai tempi di “Parklife”.
Però i tempi di “Parklife” sono questi, quelli in cui il gruppo ritrova il suo pubblico, infilato in un evento maestoso, organizzato (tanto per cambiare) all’inglese (quindi bene) e in una cornice che dalle nostre parti vedi solo per gli ormai-tendenzialmente-noiosi festival estivi. Qui invece sono tutti per i Blur, ritrovati e forse già pronti a perdersi di nuovo, ma nel frattempo ci sono due ore di concerto. Con un inizio promettente, ma un po’ legato: anche i vecchi (ma giovini) alfieri del pop rock alla britannica forse hanno qualche momento di imbarazzo di fronte alla folla sterminata londinese che li accoglie come la seconda venuta ipotizzata da quegli stessi Stone Roses, quando aprono le danze con “She’s so high” e “Girls and Boys”, lasciando poco spazio ai dubbi. Una manciata di pezzi e il clima è già perfetto, con Damon Albarn che finalmente pare avere preso le misure della situazione e accetta di buonissimo grado l’oceano di amore che si infrange in ondate sonore di ritorno sul palco. Due ore e un pezzetto per esplorare tutto quello che, per legge, un concerto dei Blur dovrebbe esplorare: dai pezzi già citati, a “Badhead”, a “Tracy Jacks”. Da “Trim Trabb” a “There’s No Other way”. Quando il tramonto lascia solo delle pennellate cremisi, i megaschermi si concentrano sullo sguardo romantico, disilluso, velato di tristezza di Albarn che interpreta “Beetlebum”, uno dei pezzi migliori della serata, uno dei pezzi migliori della loro carriera e la perfetta sintesi di quel che potrebbero ancora fare se convinti a entrare in uno studio di registrazione.
La dimensione più lunare e notturna del concerto porta ancora salti e urla, ma soprattutto i classici (e meno classici) previsti per legge: “Coffe and TV”, “Parklife” (con la simpatica partecipazione di Phil Daniels), “End of a Century”, “Country House”, “For Tomorrow”. Ma ho scelto le due canzoni che sono state il concerto per me e sono tre, dato che ho appena cambiato idea: la malinconica e melodica potenza facile di “Badhead”, la lagnante urlata alla luna di “This is a Low”, la rassegnata constatazione di “Death of a Party”. Perché il modo in cui si chiude è talmente palese e telefonata e strepitoso (“The Universal”), che non può essere fatto proprio. Era l’unica maniera per chiudere universalmente in bellezza e tripudio uno dei migliori concerti dell’anno, o uno dei miei migliori concerti di sempre.
La scaletta:
She’s So High
Girls And Boys
Tracy Jacks
There’s No Other Way
Jubilee
Badhead
Beetlebum
Out Of Time
Trimm Trabb
Coffee And TV
Tender
Country House
Oily Water
Chemical World
Sunday Sunday
Parklife
End Of A Century
To The End
This Is A Low
Encore:
Popscene
Advert
Song 2
Encore 2:
Death Of A Party
For Tomorrow
The Universal
6 risposte su “Barefoot in the Parklife”
vero, uno dei migliori concerti di sempre. da raccontare ai nipotini.
(“mi ricordo quella volta al parco Hyde, quando mi ustionai il collo…”)
per dovere di cronaca aggiungerei anche che Mr Albarn e il suo dente d’oro frequentavano il mio stesso Waitrose, dicono le cronache mondane, ma non ci siamo mai incontrati in coda alla cassa.
peccato, gli avrei chiesto volentieri che dentifricio usa 🙂
Credo che la scottatura non sia una caratteristica esclusiva di questo concerto, sigh. Tutto il resto sì. Comunque Waitrose rimane una buona scelta, non troppo fighetta (Marks & Spencer), non troppo popolare (Sainsbury’s).
WAITROSE è la più organica…
?!? bah chestooadììì?
lou… sicura di voler chiedere a Damon che dentifricio usa?
ti devo ricordare che ha un simpatico dente d’oro ora?
già… meglio chiederglielo per non usarlo mai!! 🙂
[…] per chi ha assistito a uno degli splendidi concerti estivi in Inghilterra. In particolar modo per chi era ad Hyde Park tra il 2 e il 3 luglio scorsi. Momenti belli, abbracci teneroni, denti laccati, potenza e divertimento, raffinatezza e Stupideria […]
[…] 5′:05” Dal disco: Blur Anno: 1996 Guarda e ascolta: cliccando qui Cose su questo blog: un concerto e una notizia […]