Tanto tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, c’era una parete. Sulla parete la stampa in bianco e nero della pagina pubblicitaria comprata sul Chicago Tribune da Mr. Corgan per annunciare il ritorno degli Smashing Pumpkins. La parete era in quella che preferisco ricordare come “la terra del bene e dell’amore”, ovvero l’unica reale sede di Future Media Italy e l’unica, reale, redazione per tutte le riviste che sono ma che soprattutto furono. Sulla pagina appiccicata nella zona NRU c’era una scritta a mano: “l’angolo del Tocchiamoci le Palle”. In senso propedeutico all’anti-sfiga naturalmente.
Il mantra funzionò, almeno fino a un certo punto e con degli evidenti limiti, ma non c’è stato alcun reale dramma. Ora si ripropone in tutta la sua ancestrale possanza, perché Jerry Cantrell ha annunciato che gli Alice in Chains hanno ultimato le registrazioni del loro nuovo album. Il primo dall’omonima, terza, fatica del 1995: quella di “Grind” e “Heaven Beside You”, quella in cui Cantrell prendeva sempre più sulle spalle il gruppo perché Staley era già ridotto a uno straccio impregnato d’eroina. E difatti, come il mondo sa, Staley è dipartito e ora si fa le pere assieme a Cobain, Hendrix, Vicious-san e quant’altri. Quindi alla voce degli Alice in Chains torna, dopo i tour degli anni scorsi, William DuVall, quello che fa il finto-Staley davvero bene, ma che rimane un finto qualcun’altro. E’ un po’ come quando Renzulli tirò su Cabo Cavallo per far finta che i Litfiba esistessero ancora. Sì, ok, con le dovute proporzioni, ma una sana grattata non può che fare bene.
Riprendiamo una splendida abitudine del passato, di quando il blog era diverso, i fiori di pesco erano in fiore (di pesco) e la voglia di vivere avvolgeva la qualsiasi: i commenti sulle riviste in edicola. Non proprio tutte eh, l’attenzione è focalizzata sulle pubblicazioni dedicate agli ingranaggi a scoppio e quelle che scrivono di videogiochi. Partiamo da quest’ultime e concentriamo l’attenzione su NRU, Nintendo la Riacchiappa Ufficiale per gli amichetti del Sidàmo. Una scelta che può sembrare casuale ma in realtà è casuale. A questo giro ho prodotto in particolar modo la Cover Story: Il Ruggito del Coniglio. Ovvero il resoconto del viaggio a Montpellier di un mese e mezzo fa per giocare a “Rabbids Go Home”. L’articolo mi piace a sufficienza, è scorrevole dai. E il gioco pure promette bene. Poi le solite notizie del solito Canale Notizie, con, grazie al cielo, un po’ di roba decente di cui parlare gentilmente offerta dalla Game Developers Conference 2009. E quindi qualche rece lurida e qualcuna sensata. “Rogue Trooper” quasi lurida, “Ready 2 Rumble Revolution” luridissima, “Rock Band 2” molto in grazia di Dio, “AC/DC Rock Band” quasi parecchio lurida. E anche l’anteprima del “forse ce la fa” “Ghostbusters – il VideoGioco”. Per il prossimo numero c’è già della roba fatta con delle racchette, un po’ di Montecarlo e dei pugni sapidi, se arrivano in tempo.
Ad attendermi dal ritorno monegasco c’era un bel pacchettone grosso. Sufficientemente grande per portare buone notizie in HD, ovvero il decoder di Sky HD che da un mese fanno finta di spedirmi. Invece nulla, un’altra busta sigillata dalla Signora SDA portava in dono una nuova Smart Card di Sky… che tipo, ma chissenefrega? Quando mai ve l’ho chiesta? Perché? Eh? Sigh. Il paccone, però, era dedicato alla versione Super Lusso Inutile di “Sounds of the Universe”: troppo sciccosa e troppo sprovvista di vinili per un acquisto, è stato il regalo di compleanno in programmatico ritardo di mio fratello. E di roba dentro ce n’è: il CD (eh, oh), un CD con enne canzoni extra, un altro con dei demo riacchiappati dalla storia recente e meno recente dei Depeche Mode e un DVD con l’intero “Sounds of the Universe” in 5.1 (finalmente provo un disco che mi piace così) e filmati a casaccio. In più! In più due libri di foto un po’ di Corbin, un po’ di altri sconosciuti suppongo. In più! In più un posterino che volendo ci sta anche, due spille che davvero bisognerebbe tirargliele dietro ma vabbé, cinque cartoline riprese da enne potenziali cartoline create appositamente da degli artisti (dicono) e basate sull’ignobile artwork di copertina del disco e un certificato di autenticità fondamentale per capire che sia Gore che Gahan non sanno scrivere (cfr. le firme autografe).
Inizio oggi una serie di post che avrei voluto cominciare qualche settimana fa, in occasione del viaggio a Liverpool. Ovvero: le recensioni delle stanze d’albergo pagate da qualcun’altro. Partiamo quindi dall’offerta al Monte Carlo Bay Hotel proposta per tre notti da Capcom. Un voto altissimo, perché si tratta senza ombra di dubbio di una soluzione che entra di diritto nella Top Five delle stanze d’albergo costosi provate finora, quindi in qualcosa come dieci/undici anni di press tour. Che va bene che la sociopatia e Nintendo non hanno aiutato (e difatti tolgo dal conto qualche anno, anche per l’età giovanile iniziale in effetti), ma è comunque un bel risultato.
L’albergo è posto su un bel pezzettino scoglioso di terra che si lancia in mezzo al mare, sfruttato al meglio per organizzare un gigantesco complesso di piscina interna che diventa esterna + corso d’acqua (per bagni) ancora esterno, bar vista mar mediterraneo, alberi, viottoli romanticamente illuminati e quant’altro. Ma la stanza? La stanza è piuttosto grande, ma non esageratamente grande. Ha dei buoni spazi, un bell’arredamento e delle finiture né kitsch né banali, con la giusta quantità di legno e di luci soffuse, un televisore 37″ e delle abat-jour decisamente carine. Collegamento wireless gratuito e un bollitore da thé/caffé meglio del solito. Poi… poi però viene il pezzo forte, il terrazzino con divanetto e poltrone vista mare. Roba che lasciando aperta la finestra si sente il bel sciabordio delle onde. Quanto sia lussuoso il tutto lo testimoniano i prezzi del mini-bar: 7 Euro per un Kinder Bueno o delle Pringles! Ma chiudiamo con una nota lieta: adagiata in zona vasca da bagno c’è una paperella gialla di gomma. E’ classe.
Montecarlo Bay Hotel Captivate ’09 – Capcom Voto: 9
Pro: arredamento, terrazzino, internet gratuito, paperella Contro: mini-bar cravattaro
“Sounds of the Universe” è una creatura britannica mitologico-spaziale: un Cerbero OGM a due teste. La prima è quella che imposta un’elettronica sensualmente ruvida e spigolosa, ha i tratti somatici da poeta che va aggrizzendosi di Martin Gore. La seconda esplode una voce calda e trascinante, arrembante e provolona e, naturalmente, si mostra con gli occhiali da sole di Dave Gahan. I due si rincorrono e si distanziano, con la musica composta di angoli e lance che trafiggono continuamente il tappeto sonoro, raramente lasciato libero di fluttuare dolcemente e senza gravità nell’iperspazio proposto dal titolo del disco. Gahan sembra voler cantare indipendentemente da quello che gli succede attorno, nonostante la cura sintetizzata e sintetica dei chi tira i fili delle marionette, sempre Gore. Eppure, come in una splendida e fruttuosa catena del DNA che genera successi da quasi trent’anni, i due flussi finiscono altrettanto spesso per ritrovarsi, intrecciarsi e perdersi di nuovo. L’avvio della vicenda è affidato alla litania amorosa di “In Chains”, con un urlo elettronico che si esaurisce stancamente per un lungo minuto prima di lasciare spazio a delle porzioni monodose di chitarra elettrica, perfette nel loro piccolo loop che, come succederà per tutti gli episodi restanti di “Sounds of the Universe”, rifuggono i lunghi giri e le scalate rock di “Playing the Angel”, tornando nei territori più cari (per qualche verso) a “Violator”. Più straniante ma tutto sommato simile quanto accade in “Hole to Feed”, che prende vita sul battere tribale di un gruppo di bambini andati a scuola da Trent Reznor, ma non per questo traviati del tutto. Tanto che torna il giro di chitarra accennato e replicato, che si innesta su un altro giro, che si interrompe per lasciare il tempo a Mr. Fletcher di lanciare due raggi gamma. Gahan potrebbe continuare a dire quel che dice inconscio dell’attività alle sue spalle, con il piccolo shuttle Depeche Mode che lascia l’armosfera terrestre e inizia a produrre luci colorate. E forse per questo l’interpretazione del signor Dave è roba di primissima classe, la spiegazione unica e concepibile per capire il surriscaldamento pettorale di ogni signora di trenta e passa anni quando capita a tiro del Gahan. Quanto basta per capire come si è arrivati a “Wrong”, il primo singolo, il pezzo che Gore definsice come “quanto di più vicino all’r&b i Depeche Mode abbiano mai e potranno mai fare”. E’ un inno da topaia, un salmo incazzoso e un mantra da soldatini che abbandonano il campo di battaglia. La chiave di lettura è quella dei Depeche anni ’80, con suoni corrotti e meno gel sui capelli, uno stratosferico controcanto di Gore e materiale da pogo solitaro. Lo shuttle continua il suo viaggio orbitando attorno a una stazione spaziale abitata, considerati i segnali terrestri, umani e più classici di “Fragile Tension”, tra i momenti più semplicemente melodici di tutto il disco. Anche questa volta non c’è spreco di chitarre elettriche, che parlano poco ma bene, eppure riescono a ritagliarsi quasi un bel riff tutto loro. In una disquisizione sull’improbabile alchimia che tiene ancora vivo un rapporto, le due teste della creatura per una volta paiono guardare perennemente nella stessa direzione, senza tanti scossoni e un abbraccio alla produzione più efficace dei Depeche Mode, anche se magari datata 2005. Non può dirsi lo stesso di “Little Soul”, che agisce da spartiacque nella pioggia di meteoriti in cui il gruppo sta andando a cacciarsi. E’ la prima delle canzoni a gravità zero, ancorata a nulla, libera di rotolare senza meta sotto a un’ipotetica gigantesca abat-jour, fuori dall’oblò gli occasionali lampi siderali che Fletcher lancia per includere un accenno di inquietudine alla coppia fluttuante: Gahan e Gore cantano all’unisono un caldo pezzo soul. In un’altra forma avrebbe potuto prendere vita ai tempi di “Faith and Devotion”, questa volta però ci sono troppe interferenze radio e una fantastica chiusura in cui l’ennesimo accenno di chitarra prende il palco per pochi secondi. Poteva non esserci, tanto è accennato, ma c’è e senza sarebbe stato un delitto.
“In Simphaty” si muove con dei piedi così soffici e grattugiosamente anni ’80 che a dirlo parrebbero tornati i paninari, invece il terreno è sconnesso e come sempre Gore ha applicato un bel filtro “distorci” sufficiente a rendere meno accogliente e banale l’appartamento, fortunatamente rasserenato dal benvenuto continuo di Gahan. Ancora una volta quel che inizialmente appare come un episodio semplice e smagrito, rivela col passare del tempo la stessa quantità di strati di una bella cipolla in codice binario, con i passaggi e le creaturine elettriche ad abbaiarsi tra il canale sinistro e quello destro. Poi c’è da discutere con “Peace”: un angelus recitato nel buio dello spazio e dedicato al pianeta Terra, tutto costruito attorno alla tastiera di Fletcher e a qualche gigantesca graffetta arrugginita, ma che apre le braccia e lancia una carezzona gigante con il corposo coro in cui questa volta né Gore né Gahan vincono uno sull’altro. Eppure è troppo smaccata nel bridge con falsetto proprio di Gahan o nel ripetersi tutto sommato un po’ stancamente fino al termine dei quattro minuti e rotti previsti. Non c’è tempo per abbandonarsi a malinconoie, il ritorno è a base di “Come Back”, strepitosa fusione di universo stellato dagli orizzonti infiniti (tastiere) e sangue pulsante (le chitarre), che innalzano un’interpretazione da sturbo reale di Dave. Pause, scontri, esplosioni sonore, spazio perfettamente distruibuito tra voce ed elementi sonori, con una spruzzata di ipnotica magia romantica dei vecchi tempi. Il passaggio migliore di “Sounds of the Universe” assieme a “Hole to Feed” probabilmente. La questione va chiudendosi, l’ultima fase del viaggio Depeche respira con la strumentale “Spacewalker” (utile all’incirca quanto le tracce strumentali di “Ultra”, ovvero poco o nulla), solo per tornare a lavorare con più tranquillità e regalando qualche bacio con lo schiocco retrò ai fan più intransigenti. “Miles Away (the Truth is)” è rock d’annata e poco dannato marchiato DM, bello, saporito e sorprendente quanto una pizza margherita ben cotta. “Perfect” parte con la bestemmia, un saluto vocale di Gahan che se non ci stai troppo attento sembra Simon Le Bon dei primi anni ’90. Poi va a parlare di universi paralleli e l’ammiccamento al titolo del disco è talmente facilotto che ai proto fighetti di questo blog nemmeno piace. E’ proprio quando la voce di Sir Dave ha ripreso a prevalere nettamente sul resto che Gore si prende il suo solito spazio, quello rassicurante e da vero leader della band di “Jezabel”. Che purtroppo è “il classico pezzo alla Gore”. Ma che grazie a dio anche questa volta abbiamo “il classico pezzo alla Gore”, perché è romantico e vitale quanto una rotolata nell’erba appena tagliata con la Designer. Anche se il tutto prende una (fantastica) deviazione sottozero e vagamente inquietante nella chiusura. Dopo quasi un’ora di distacco dall’orbita terrestre e con ancora nelle orecchie la eco della romanza di Gore, conclude il documento spaziale la buona e dimenticabile “Corrupt” (che si accende con il più chiaro riferimento a “Music for the Masses” di sempre). Vive sull’onda energetica dei precedenti “Perfect” o “Miles Away”, a riconfermare ancora una volta la duplice natura di ogni singola canzone e dell’intero disco. Se da “Sounds of the Universe” il ritrovato e foltissimo pubblico dei Depeche Mode si aspettava un secondo “Playing the Angel” (quello sì che era il vero disco da stadio), ci saranno delusioni e mugugni. Il nuovo sofrzo in studio del gruppo della musica per le masse è un tortino anni ’80 farcito di panna acida. Ma d’altronde già l’ignobile copertina dovrebbe aver fatto capire che questa volta non ci sono specchietti per allodole.
Depeche Mode – Sounds of the Universe Mute Records – 53 minuti Queste dovete ascoltarle: Hole to Feed, Come Back, In Simpathy, Miles Away (the Truth is)
“Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto / chi ha dato ha dato ha dato / scurdammoce o’ passato / simmo ‘e Napule, paisà”
“Cannavaro potrebbe essere utile alla Juventus, come credo a qualsiasi altra squadra. Un difensore come lui fa sempre comodo, è un grande campione con un’esperienza eccezionale. Siamo anche molto amici e lo conosco molto bene. Ovviamente con lui non si può pensare ad un progetto a lungo termine vista l’età, ma anche io ormai non sono più tanto giovane”. (Girgio Buffon a Gazzetta.it)
Il vecchio Earl aveva ragione e alla fine i miei punti karma sono serviti a qualcosa. A voler fare i pulciosi precisi i punti sono anche stati ripagati doppi. Vado per salutare e assistere alla tumefazione-in-zaino di tutto quanto dovrebbe accompagnare Svampy in tre settimane di Arizona e torno con in braccio un mega cofano blu scuro in forse-finta pelle: la discografia completa dei Beatles. Da intendersi in senso letterale: i dischi, in vinile. Tutti. Dono assolutamente fuori catalogo, fuori previsione, fuori tempo, fuori tutto. In almeno tre occasioni di Amoeba Music mi sono fermato alla “B”, passando i dischi uno dopo l’altro, cercando di decidere da dove cominciare gli acquisti: in ordine cronologico? Dal “White Album” che è sempre il “White Album”? Da “Sgt. Pepper’s” che comunque, santa padella, che vuoi dirgli? O forse da “Revolver”, che ultimamente sto pensando che sia meglio di quegli altri due? Da dove da dove? Dal nulla, tre volte alla cassa con tutt’altro, senza il coraggio di prendere una decisione scarafaggiosa. E ora, grazie all’evidente squilibrio di generosità del Dott. Santilli Papà, tutti. Così, gratis. E’ all’incirca come vincere una lotteria a cui non ho partecipato e me ne vado dalle case (berlusconiane no?) di Brugherio con un po’ un senso di ingiustizia clamorosa, nonostante le rassicurazioni di Donna Lucia. Dopodiché arrivo a casa, tiro fuori “Please, Please Me” e lo lascio lì per un’ora. Dovrei aprirlo, ma non so come fare. Sono tutti belli incellophanati, non ho il coraggio di aprirli. Ma lasciare tanto ben di Dio imbustato è un delitto e dato che i dischi vanno sentiti e non sarcofagati, dopo un bel po’ sventro la prima pellicola, con un ritorno di odore plasticoso di qualche decennio fa. E ora sta girando contento, mai quanto me ovviamente. 🙂
A 68 anni Bob Dylan potrebbe fare il Bob Dylan, il monumento di se stesso: una riproduzione in marmo della leggenda, appoggiato ancora sui palchi di mezzo mondo, come un magro e leggendario juke box con la cassa gracchiante. Nessuno troverebbe granché da ridirci. Invece, a 68 anni, Bob Dylan rifa quello che vuole del Bob Dylan che fu e che è, trovando ancora posto per rotolare un po’ dove vuole, senza apparente direzione per una casa, come quelle altre famose pietre di cui ha celebrato la voglia di esplorazione mezzo secolo fa. Completo nero e nemmeno mezza parola rivolta al pubblico, Mr. Bob fa quello che vuole, come sempre. Va dritto per la sua strada e si mette al centro del baretto, prende le strisce in sovraimpressione dei suoi testi e le legge, le strappa, le mastica e le risputa arrotolate al pubblico. Non sta effettivamente cantando. Non sta cantando come avrebbe fatto se fosse il juke box di cui sopra almeno. Sta rilanciando le parole grattate e deformate a piacimento, riarrangia le liriche come le musiche e non regala al Mediolanum Forum un’operazione nostalgia. Se dopo più di quarant’anni Dylan va ancora in giro per i quattro angoli del globo è perché non si è arreso all’idea del suo stesso mito, così deve rifare suoi i pezzi che lo hanno incorniciato nella mitologia, senza che le canzoni riescano a diventare qualcosa di più grande di lui, senza farsene possedere. Sono ancora le sue canzoni e, per tanto, ci fa esattamente quello che vuole. Il risultato è un’iniezione di sfrontatezza e rilassatezza, di indicibile magia e brividi. Primo, perché trova il punto di equilibrio tra la scaletta che gli va di fare e quella che comunque offre sufficienti motivi per farsi prendere da un coccolone (“Ballad of a thin man”, “Just like a woman”, “All along the watchtower”, “Stuck inside a mobile…”!). Secondo, perché lo show è una lavatrice del tempo, un cestello lanciato in centrifuga che riporta il palazzetto dello sport in un’altra epoca, con i fari di grosse Cadillac a illuminare la band da dietro, in mezzo a un qualche campo coltivato improvvisato palco, con le lampadine che cigolano appese sopra lo stage, in un’America di decenni più giovani. Terzo: perché per questo è l’unica occasione possibile per ascoltare questo rock. Questo modo di fare. Questo splendido inno al folk e al jazz che danzano un valzer seguendo una stratosferica sezione ritmica e vengono lanciati nell’iperspazio di Urano dalla voce di Dylan e da quello che ha avuto il coraggio di suonare la chitarra solista sulla già citata “All along the watchtower”. Per dire ai propri figli “io c’ero”, ma con un senso, e senza muschio sotto il sasso.
Per dieci tracce Karin Dreijer ridipinge i suoni e i panorami desolati, ghiacciati, innevati e sorridenti, solari e muti, dispersi nel grande nord Europeo. Sono i dieci pezzi che costruiscono i quasi cinquanta minuti di “Fever Ray”, prima uscita solitaria della metà dei Knife, il gruppo sintetico elettronico tanto caro non solo alle classifiche di Pitchfork, ma anche e soprattutto ai compagni Royksopp. Un disco per esordire da sola che non si spinge molto più in là di quanto già fatto con “Silent Shout” (2006) proprio con il fratello. Ed è un bene, perché il terzo disco dei Knife era un gran disco e “Fever Ray” è uno strepitoso debutto. Ritmi compassati, leggeri, suoni netti e produzione cristallina, che si miscela ininterrottamente con gli orizzonti a perdita d’occhio delle terre ghiacciate, con i sintetizzatori a distillare suoni algidi ma avvolgenti, tutti perfettamente leggibili. Rimangono le due identità di Karin, che vivono attraverso la voce naturale e quella “pitchata” verso il basso che riporta alla luce il mostro diluito che fa da contraltare nel cantare di faccende personali e tendenzialmente lisergiche. Una spruzzata di anni ’80 e di modernità, in cui niente è messo a caso e nessuna delle canzoni viene presa sottogamba o abbandonata anzitempo a se stessa. Cinquanta minuti per imbastire un unico discorso, affascinante e al tempo stesso meno cupo dei passaggi più stregati di “Silent Shout”, ma non per questo “Fever Ray” si può mai dire, neanche per mezzo istante, un disco allegro. Unico e forzatamente debitore al gruppo originale di stili e idee, “Fever Ray” dimostra che c’è dell’arte nel leccare i pali ghiacciati e rimanerci attaccati con la lingua. Da ascoltare prima di subito, per lunghe mattinate, soffocosi pomeriggi di lavoro, stranianti notti stellate e piene di divano.
Fever Ray – Fever Ray (2009) Coop – 48 minuti Queste dovete ascoltarle: If I had a heart, When I grow up, Keep the streets empty for me.